Se, mentre ascolto la parola dell’altro (o il suono di una musica, o il passaggio del vento) io non sono capace di fare silenzio dentro dì me, se non faccio tacere il brusio dei pensieri, delle riflessioni condizionate, delle emozioni istintive, io forse sento i suoni che mi giungono all’orecchio, ma certo non li ascolto per quello che sono, in tutta la loro potenza espressiva. Il rapporto con il silenzio è una funzione esistenziale primaria, alla quale ci si deve educare tramite quell’esercizio o quella pratica che definiamo ‘fare silenzio’.
Fare silenzio non vuoi dire imporsi o farsi imporre un tacere esteriore e interiore passivo, subìto, ma ampliare lo spazio interiore, che è potenzialmente sconfinato ma normalmente ingombro di ogni genere di oggetti-pensiero. Vuol dire riconoscere il valore espressivo del silenzio, comprenderlo come piena partecipazione e non come passiva ricezione, come nutrimento dello spirito, della mente e persino del corpo.
Non è per niente facile fare silenzio, anche perché da secoli la nostra cultura ha imboccato la strada di considerare parola e silenzio come antitetici nemici (i vassalli rispettivamente dell’essere e del non essere) e non ha elaborato un’educazione affettuosa al silenzio. Anche là dove la meditazione è rimasta come pratica tramandata, si tratta per io più di meditazione pensata, tecnica psichica, esercizio di elaborazione di immagini mentali, per raggiungere un qualche stato inferiore desiderato. Un rapporto immediato, totale, assorto e vigile con il silenzio non viene proposto come pratica dalla nostra cultura filosofica e religiosa, ma viene abbandonato al sortilegio dell’attimo. L’amicizia con il silenzio, come ogni amicizia, è un bene di cui avere cura. Altre culture, altre sensibilità ed esperienze, in particolare orientali, che oggi si incrociano con le nostre, ci fanno conoscere modalità di fare silenzio, con la mente e con il corpo, che possiamo imparare e far nostre. Penso si tratti di una delle non molte speranze che visitano oggi il nostro presente. La ricerca è affidata a ciascuno. Il criterio per distinguere, rispetto al silenzio, la paglia e l’oro credo sia questo: se la meta della meditazione proposta è uno stato di benessere e pace, se il silenzio interiore si ammanta di aggettivi e promesse, siamo nell’ambito del gioco mentale; se si tratta soltanto di sedere in silenzio, siamo alla soglia del fare silenzio.
*** Giuseppe Jiso FORZANI, monaco buddista zen, autore di Fiori del vuoto, Bollati Boringhieri, Elogio del silenzio, ‘D la Repubblica delle Donne’, 8 settembre 2007
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