La repubblica presidenziale del Brasile ha goduto la grande fortuna di avere una sequenza perfetta di ottimi presidenti: due mandati consecutivi (1995-2003) del liberal-democratico Fernando Henrique Cardoso del partito PSDB e due mandati consecutivi (2003-2011) del social-democratico Luiz Inácio Lula da Silva del partito PT.
Nel decennio che va dal 1901 al 2000 il PIL brasiliano è cresciuto di + 2.6%. Nel decennio che va dal 2001 al 2010 è cresciuto di +3.9%. Cardoso avviò alcune riforme sociali ma Lula le ha proseguite e potenziate. Secondo “Le Monde Diplomatique” durante il governo Lula la classe medio-alta è cresciuta dal 10 al 13%; la classe medio-bassa è cresciuta dal 30 al 39%; il proletariato è cresciuto dal 28 al 30% e il sottoproletariato è sceso dal 25 al 10%. Praticamente, ben 42 milioni di brasiliani sono saliti socialmente. Un record assoluto sul pianeta.
Nel 2011 la presidenza è passata a Dilma Vana Rousseff, economista nata in famiglia di classe medio-alta, militante nella lotta armata contro la dittatura, arrestata per tre anni dai militari e torturata, “donna dura, circondata da ministri morbidi” come lei stessa si è definita. Sotto i governi Lula era stata capo gabinetto coordinatore dei ministeri e poi ministro per le miniere e l’energia. Nel 2014 Dilma è tata rieletta presidente dopo una campagna elettorale in cui la destra ha accarezzato l’idea di scalzarla tramite il suo candidato Aécio Neves, su cui ha investito somme ingenti.
Ma già prima era iniziata un’azione intensa contro i migliori collaboratori di Lula e di Dilma, condannati uno dopo l’altro per corruzione dopo processi seguiti con crescente interesse e scandalo da parte dell’opinione pubblica. E’ poi iniziata una versione brasiliana di “Mani pulite” (che in questo caso prende il nome “Lava Jato”) in cui la parte di Di Pietro è svolta dal magistrato Sergio Moro, 43 anni, studioso entusiasta della tangentopoli italiana. Come da noi la madre di tutte le tangenti fu l’Eni, così in Brasile la madre di tutte le tangenti è stata l’azienda petrolifera statale Petrobras, con i cui fondi il PT e i suoi massimi dirigenti si sono ampiamente foraggiati. Lula e Dilma – questa l’ipotesi forse non infondata dei magistrati – non potevano non saperlo, anche se non avessero partecipato direttamente alla spartizione delle tangenti. Scopo ultimo della magistratura (e della destra) è quello di risalire fino a Lula e a Dilma nella scala dei corrotti per mettere l’uno in galera e l’altra in stato di impeachment. In questa loro azione gli accusatori sono aizzati in modo corale e martellante da tutti i media, con l’unica eccezione di una rivista marginale come “Carta capital”.
Oggi l’annunzio di Dilma: a partire dal giorno 22 prossimo, Lula diventa suo capo gabinetto, godendo così dell’impunità riservata ai membri del governo, e potrà concorrere nuovamente alla presidenza nelle elezioni del 2018. Insieme alla nomina sono state annunziate tre altre decisioni di politica economica: più investimenti pubblici, meno tagli al sociale, più crescita. Così Lula, fino all’altro ieri il presidente più amato di tutta la storia brasiliana, ieri fischiato per strada, oggi ricopre un ruolo di prestigio che, di fatto, lo affianca a Dilma nell’esercizio della presidenza.
Alcune considerazioni. Galvanizzato dalla sua tangentopoli, il Brasile si sta avvitando in una crisi che annulla trenta anni di successi economici e sociali. Lo stallo in cui il paese si è inchiodato, coincide con la crisi della Cina, cioè con uno dei principali mercati della produzione brasiliana, e coincide con la tempesta tecnologica che anche in Brasile sta mietendo posti di lavoro. Lo spettro dell’inflazione e la fuga dei capitali stranieri fa il resto. Il tutto, alla vigilia delle Olimpiadi che, nel progetto di Lula, dovevano rappresentare la vetrina su cui il nuovo grande Brasile si presentava al mondo.
Staremo a vedere come va a finire questa brutta storia: se il Brasile saprà finalmente ripulirsi dalla corruzione senza guardare in faccia a nessuno; o se la lotta alla corruzione è usata dalla destra come espediente soprattutto mediatico per scippare il governo alla sinistra. Nel primo caso gli eventi di questi giorni sarebbero un passo ulteriore del Brasile verso la democrazia matura e compiuta. Nel secondo caso sarebbe un’azione controproducente per tutto il Brasile, l’immagine di questo grande paese ne uscirebbe appannata e sui brasiliani calerebbe un’ombra di infantilismo autolesionista non dissimile da quello che, dopo Mani Pulite, procurò agli italiani venti anni di governi Berlusconi.
*** Domenico DE MASI, sociologo, Un Brasile ambivalente, linkedin.com/pulse, 14 marzo 2016, qui
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