(...) Faccio tanti incontri anche nelle Scuole e nelle Università e mi trovo di fronte a realtà molto diverse fra loro, alcune anche molto difficili. Ciò che mi ha davvero colpito è vedere ragazzi che si sono già arresi. Quando tu chiedi a questi ragazzi “che tipo di lavoro vuoi intraprendere nella tua vita?” Qualcuno mi risponde “il mantenuto” “i miei genitori non lavorano, perché dovrei lavorare io”. Arresi.
Dietro un’educazione sociale che deriva da una grossa responsabilità sia dei maestri sia dei genitori, se un alunno trasmette una mancanza di prospettiva così scoraggiante, il maestro deve lavorarci di più, deve dargli strumenti. Poi ognuno ha il proprio carattere ma non è ammissibile che un ragazzo di sedici anni non abbia un sogno.
Sento che devo intervenire. In un paese dove sono tutti masterchef o fenomeni musicali, abbiamo la responsabilità della normalità. Non possiamo far credere a tutti i ragazzi che potranno diventare dei capitani della nazionale o che saranno primi in tutto ciò che faranno, ma bisogna almeno trasmettere loro che è importante che inizino un cammino, il loro cammino giusto o sbagliato che sia.
Racconto sempre di come io abbia vinto 5 scudetti ma anche di come ne ho persi altri 10, di come abbia vinto 3 Champions League ma anche delle tante a cui non ho nemmeno partecipato. Sono caduta un milione di volte ma lo sport mi ha dato gli strumenti, i mezzi, la tenacia per rialzarmi e questo è ciò che devono fare i maestri e i formatori. Dare valore alle scelte dei loro ragazzi e sostenerle fino in fondo.
Qualcuno va all’università perché il padre ha deciso che deve fare medicina, ma magari questi ragazzi sono portati per fare gli imbianchini. Bisogna insegnare ai ragazzi a fare ciò che sentono, dare valore alle loro capacità, rispondere con entusiasmo ad un percorso che hanno scelto loro e affiancarli in questa scelta. Permettere loro di sbagliare, di rifletterci e di correggersi. Meglio essere imbianchini di successo o dottori mediocri?
La parola crisi è diventata un compagno d’avventura, “siccome c’è crisi quasi quasi non faccio nulla”. Invece a mio parere la crisi è un modo per riqualificarsi, per spingere ancora di più sull’acceleratore. Ed è quello che cerco di raccontare nelle scuole. Oggi che sono anche madre se devo pensare che i miei figli a 16 anni si sentano arresi mi viene il voltastomaco.
Ma il tema degli arresi, che parte dalla scuola, spesso arriva anche nelle aziende. Te ne accorgi quando entrano in ufficio, fanno il loro compitino e tornano a casa. Ma perché non provare a cambiare la mentalità? Perché non provare a cambiare l’ambiente e l’atteggiamento noi in primis e capire che nello stato delle cose i primi a risentirne siamo proprio noi?
Un discorso che riguarda i singoli, certo. Ma che anche le aziende da parte loro è importante che affrontino, facendo una seria autocritica soprattutto nei confronti del proprio management laddove sono tutti numeri uno alle cui spalle spesso non c’è nessuno. Non sono leader, lavorano da soli senza nessuno che li segua. Nessuno li riconosce come tali, sono leader sul biglietto da visita ma non fanno in realtà crescere altri leader, non sanno mettersi da parte a beneficio della squadra. Il leader non è un individuo, è un costruttivo. Uno che alza la voce, si impone e fa sentire l’importanza del suo ruolo rispetto alle scelte che fa, non è un leader. (...)
*** Maurizia CACCIATORI, già campionessa di pallavolo, commentatrice televisiva e formatrice, Lavorare in gruppo o vincere in squadra?, 'senzafiltro', 18 marzo 2016
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