Avete mai guardato con leggera invidia quell’amico o collega che, dall’età di 6 anni, aveva già in mente cosa avrebbe fatto da grande e poi, effettivamente, lo ha fatto?
Cioè, il tipo che vuole fare il medico, studia per fare il medico e, incredibile, fa il medico; imbroccando quei percorsi lineari, incontaminati come una foresta vergine, non facili, no, non dico questo, per carità, ma chiari, netti, con l’obiettivo perfettamente centrato da quella freccetta che è la propria capacità di capire in fretta chi sei o chi vorresti essere, aiutato dalle inclinazioni, magari, e dalle contingenze che si mettono fila come soldatini per nulla ostili e zac: sogno realizzato.
Quanti ce ne sono così? Tanti? Pochi? Non saprei.
La mia sensazione è: sempre meno.
Mi confrontavo con un collega selezionatore che mi raccontava quanto fosse diventato difficile reperire un cv non “isterico”, cioè non disseminato di spezzettamenti lavorativi, settori diversi, aziende diverse, insomma: era a caccia del percorso lineare.
Me lo diceva con l’enfasi di chi è assolutamente convinto che questo fosse l’elemento-chiave della stabilità, della serietà e della competenza di chi merita l’assunzione: il fottuto percorso lineare.
Ora, per carità, dipende sempre da quale ruolo andrà a coprire, da quale mandato preciso hai ricevuto dall’azienda committente o da quanto devi pararti il fondoschiena se stai svolgendo una selezione che ti verrà retribuita solo in caso di reperimento di una rosa “a basso rischio rifiuto”, ma, che diamine: io non sono mica tanto sicura che aver fatto la stessa cosa tutta la vita (o la maggior parte del tempo) sia l’unico parametro – o il principale – che discrimini un collaboratore “valido” da uno no.
Anzi: credo di pensare esattamente il contrario.
La varietà di esperienze è ASSOLUTAMENTE un valore. Non stiamo parlando dell’aspirante sceneggiatore fallito che sbarca il lunario friggendo hamburger mentre viene rifiutato dalle grandi major e, forse, creperà panzone, benché talentuoso, mettendo maionese dentro i panini.
Le esperienze professionali fatte e finite – la cui durata, insomma, non si aggiri intorno ai venti minuti netti – seppur non totalmente “armoniche” tra loro, costituiscono tasselli importantissimi del bagaglio di strumenti e tecniche, anche relazionali, di un professionista e, guardandomi intorno, tra i filosofi che fanno i formatori, i biologi che fanno gli informatici, gli ex poliziotti che fanno i direttori del personale, gli ex ingegneri che si occupano di marketing, mi pare di ricevere una qualche conferma.
Potrebbe essere solo un caso, ovvio, o l’aspetto più evidente di una sclerotizzazione infausta del mercato del lavoro, sì, ci sto.
Ma l’identità professionale di un individuo non dovrebbe albergare nella sicurezza e nell’autonomia con cui si arriva a padroneggiare efficacemente contesti, conoscenze, obiettivi e relazioni in costante mutamento?
Sì, il titolo di studio è e sarà sempre parte integrante del percorso e dell’abilità, ma la mentalità, l’approccio, e , soprattutto, l’atteggiamento – quella cosa che è molto simile allo scendere in campo col passo giusto, quel tentare di estrarre il meglio dalle cose, di essere responsabili rispetto a quello che si fa – paiono non essere necessariamente legati agli anni di esercizio, né tanto meno alla ripetitività di una routine, di una presunta coerenza che fa tanto “se mi sposti da qui, morirò” o, peggio, “sono bravo perché ho sempre fatto questo”.
Mi piacere credere in quelli che sono bravi proprio perché non hanno sempre fatto questo.
*** Chiara BOTTINI, formatrice, consulente, Che s’intende per identità professionale oggi?, 'senza manuali', 12 settembre 2015, qui
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