C’è un ricordo di mia madre che non ho mai condiviso con Kacey. Quand’ero piccola mi sembrava troppo prezioso, avevo paura che se ne avessi parlato sarebbe scomparso.
In questo ricordo non riesco a vederla in viso. Di lei sento soltanto la voce dolce che mi parla mentre faccio il bagno. Stavamo giocando. Qualcuno ci aveva regalato delle uova di Pasqua di plastica e mi era stato permesso di portarle nella vasca con me. Erano gialle, arancioni, azzurre e verdi e divise a metà. Potevo aprirle e rimetterle insieme spaiate: la metà gialla con quella azzurra, la metà verde con quella arancione. A casaccio. Oh, no, no, gridava mia madre prendendomi in giro. Rimettile insieme giuste! E questa cosa mi faceva tanto ridere. Sciocchina, diceva mia madre. È stata l’ultima volta che qualcuno si è rivolto a me in modo così infantile. Ricordo il suo profumo e il profumo del sapone, come fiori sotto i raggi del sole. Quand’ero più giovane pensavo fosse stato questo ricordo a salvarmi dal destino di Kacey, a rendere me quella che sono e lei quella che è. Il suono della voce di mia madre, che sento ancora, e la sua dolcezza, ovvero la prova del suo amore per me. La consapevolezza che una volta al mondo è esistita una persona che mi ha amato più di qualsiasi altra cosa. In un certo senso credo ancora che sia vero.
*** Liz MOORE, 1983, scrittrice statunitense, I cieli di Philadelphia, NN editore, 2020
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