Resipiscenza è una parola che può metterci in imbarazzo due volte: la prima, perché la maggior parte di noi (me compreso) deve aprire un vocabolario o andare su Google per scoprirne il significato letterale. La seconda quando, dopo aver letto quello che significa, ne constatiamo la drammatica carenza in politici e manager di tutto il mondo. Toglierci dal primo imbarazzo è semplice, andiamo subito sullo Zingarelli: “Riconoscimento del male commesso o dell’errore compiuto, accompagnato da consapevole ravvedimento”.
Il problema, ora, è come toglierci dal secondo imbarazzo! Si, perché se vi domandassi quando è stata l’ultima volta che avete ascoltato un politico o un manager affermare: “Scusatemi signori, ammetto di aver sbagliato, riconosco le mie responsabilità e vi prometto che in futuro cambierò atteggiamento e quanto è successo non si ripeterà mai più”, molto probabilmente inizierete a grattarvi la testa, il vostro sguardo si perderebbe nel vuoto o semplicemente mi guardereste come se fossi una persona delirante. L’analisi delle parole ed espressioni chiave contenute nella definizione di resipiscenza è molto interessante e formativa. “Riconoscimento”, ad esempio, rimanda alla capacità di accorgersi di aver fatto qualcosa di sbagliato e all’onestà intellettuale di ammettere l’errore compiuto o addirittura “il male commesso”. Tale riconoscimento acquista valore pratico soltanto se viene “accompagnato da consapevole ravvedimento”. In italiano, il verbo ravvedersi significa “cercare di tenersi lontano dagli errori per l’avvenire, di correggersi”.
Non basta, dunque, “scusarsi” o, ad un livello ancora più alto, “pentirsi” di quello che si è fatto. E’ necessario che la persona intenzionalmente cambi anche i suoi valori di riferimento ed i comportamenti che ne derivano. Molto probabilmente, uno dei motivi ispiratori che portarono la celebre filosofa Hannah Arendt a titolare il suo altrettanto celebre libro La banalità del male, fu il constatare l’assoluta mancanza di resipiscenza che i criminali nazisti dimostrarono dalla fine della guerra in poi. Le crisi economiche e sociali, di ieri come anche quelle di oggi, evidenziano che i comportamenti patologici e distruttivi di alcuni leader hanno alla radice questa assoluta mancanza di resipiscenza. L’alibi psicologico di Don Abbondio nei Promessi Sposi: “Se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”, non è più sostenibile. Il politico o il manager di un’azienda, per essere considerati dei veri leader, devono saper dimostrare il coraggio della resipiscenza. Se provassimo ad immaginare l’Etica come una piramide, dove alla base troviamo i concetti di responsabilità individuale e responsabilità sociale d’impresa e nella struttura tutti i comportamenti virtuosi che ne conseguono, la resipiscenza rappresenterebbe la “cuspide d’oro”, il prezioso vertice che ornava le antiche piramidi di Giza, la cui luce rifrangente poteva essere avvistata a diversi chilometri di distanza nel deserto che circondava Il Cairo, in Egitto.
La resipiscenza rappresenta dunque l’apice di uno stile manageriale che ne qualifica i comportamenti e rende la leadership “riconosciuta e riconoscibile” da tutti come la miglior guida possibile. Sicuramente, il politico e il manager che ispirano più fiducia nelle persone sono quelli che riconoscono e ammettono i propri errori per poi correggere il tiro in modo ancora più efficace e tempestivo. Insomma, anche se al momento la resipiscenza è pressoché inesistente, l’importante è che almeno se ne parli.
Se infatti lasciamo cadere il discorso la parola si rompe …
*** Stefano GRECO, psicologo, formatore, consulente, La resipiscenza, 'HR On Line', n. 20 dicembre 2013 (anche in 'facebook', 2 aprile 2017, qui)
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