martedì 6 dicembre 2016

#SENZA_TAGLI / Renzi, e la dignità (Francesco Erspamer)

“Renzi ammette la sconfitta ed esce di scena con dignità” titolano i giornali (la citazione esatta è del Fatto quotidiano). Ecco, i media già stanno cominciando a creare le condizioni per una sua conferma a Palazzo Chigi o per un suo ritorno, diciamo fra un anno, dopo che il suo successore abbia cercato invano di rimediare (con un partito di maggioranza e un parlamento in cui i fedelissimi di Renzi sono tanti e, come si è visto, disposti a tutto), a tre anni di cattivo governo e di privatizzazioni dissennate.

Dignità? È una parola, una delle poche, che proprio non si adatta al camaleonte Renzi. Ha governato con arroganza e supponenza, spesso con cattiveria, ha barato ogni volta che ha potuto monopolizzando in modo indegno i canali televisivi e i giornali e usando le istituzioni a suo vantaggio – si ricordi il quesito stampato sulla scheda, lo spostamento a dicembre del referendum previsto per ottobre, l’abuso della fiducia per far passare le sue leggi. Per non parlare dello stravolgimento della Costituzione, fatto approvare da un parlamento delegittimato dalla sentenza con cui la Consulta giudicò incostituzionale il Porcellum, con cui era stato eletto. Dignità? Dignitoso sarebbe stato cercare una larga intesa, non ricorrere al referendum sperando di vincerlo con il voto estero (dichiarazione di Renzi di pochi giorni fa).

Dignità? Anche il suo discorso di concessione (un’altra moda americana di cui si è appropriato) è stato tutt’altro che dignitoso. Ha parlato solo di sé stesso, confermando il suo patologico narcisismo: che a tanti italiani in cerca dell’uomo forte è piaciuto ma che non ha nulla a che vedere con la dignità: “ho perso io”, “io ho perso”, “io sono diverso”, “non sono riuscito a portarvi alla vittoria”, “non ce l’ho fatta”, “accoglierò qui il mio successore”. 

Dignità? Piuttosto pubblicità, autopromozione, culto della propria personalità. Con quella frase che sintetizza il suo disegno politico: “Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta”. E perché mai il presidente del consiglio e segretario del Pd dovrebbe essere l’unico capro espiatorio, come anticamente i re-sacerdoti? Pensavo che le decisioni le prendessero il governo e la direzione nazionale, collettivamente. Fu con una frase molto simile che il 3 gennaio 1925, dopo il delitto Matteotti, Mussolini passò all’aperta dittatura accentrando sulla sua persona non solo tutto il potere ma anche tutte le responsabilità: “Io assumo, io solo, la responsabilità di tutto quanto è avvenuto”. La democrazia è l’opposto: un sistema in cui tutti si assumono (o dovrebbero assumersi) le loro responsabilità, non in cui un singolo si assume quelle di tutti.

Certo, Renzi ha ammesso di avere perso. Ci mancava altro, con un margine di 20 punti malgrado i vantaggi di cui sopra. Ma si è limitato ad annunciare le proprie dimissioni da premier, a questo punto inevitabili. Ho ricordato l’abitudine americana ai discorsi di concessione: che lì hanno senso perché quasi sempre chi li pronuncia sta rinunciando definitivamente a quella carica. Ma Renzi? Anch’io avrei parlato di dignità se, sconvolto dalla débâcle, si fosse ritirato per sempre a vita privata. Invece sta solo preparando il suo riscatto. Come nel 2012, dopo aver perso con simile percentuale le primarie del Pd. Andatevi a rileggere il suo discorso dopo quella sconfitta, straordinariamente simile a quello di ieri: lo stesso protagonismo, “noi abbiamo perso, anzi io ho perso” e ancora “qualcosa abbiamo sbagliato, io ho sbagliato”; lo stesso culto della vittoria, “volevamo vincere” (nel discorso di ieri: “volevamo vincere, non partecipare”). Formule vuote: mentre rendeva omaggio a Bersani, Renzi già macchinava per fregarlo alla prima occasione, che si sarebbe presentata meno di un anno dopo. Dignità? Dove sarebbe la dignità?

Per questo trovo pericolosissima l’indulgenza che vedo già circolare fra i suoi oppositori, come se avessimo vinto la guerra. Abbiamo solo vinto una battaglia. Quando Churchill parlava di magnanimità nella vittoria parlava di una vittoria definitiva, incondizionata; finché c’è la guerra, diceva, serve determinazione, risoluzione, nessun tentennamento e nessuna generosità. Renzi un “politico di razza” e per di più “non attaccato alla poltrona”? Siamo seri. Dalla nascita Renzi non ha fatto altro che stare attaccato a una poltrona, che altro sa fare? Cambierà poltrona per un po’ ma solo per preparare il suo ritorno a Palazzo Chigi e poi al Quirinale, che ormai sente come un Destino Manifesto, suo e dell’Italia. Anche questa sconfitta la utilizzerà a proprio vantaggio se appena i suoi avversari abbasseranno la guardia, inteneriti dal labbruccio in fuori e gli occhi rossi. Oh, non è una mascherata: è sconvolto sul serio; come ha confidato ai suoi portaborse quando il risultato del referendum si è definito: “Non credevo che potessero odiarmi così tanto”. Chi chiama odio il dissenso non è affatto pentito e tanto meno disposto a farsi da parte: “Ho fatto quello che dovevo fare, ho proposto una riforma giusta”, insiste, incurante della disapprovazione della netta maggioranza degli italiani; lui è nel giusto in ogni caso.

È ridicolo commuoversi perché il bambino viziato invece di puntare i piedi e prendere di conseguenza un altro paio di ceffoni, se n’è andato piagnucolando ma senza fare storie. O almeno: ha detto di volersene andare; adesso vediamo cosa fanno il suo amico Mattarella e il suo complice Berlusconi. Ricordo bene cosa accadde dopo le primarie del 2012: anche lì in tanti a dire che era stato dignitoso, che era uno che non ci teneva al potere, un uomo nuovo. Li ha smentiti clamorosamente: ma già se ne sono scordati.

Non c’è dignità nella menzogna e nell’autocommiserazione, Renzi è quello dell’#enricostaisereno: mente compulsivamente, quando gli serve ma anche quando potrebbe farne a meno. Quando uno mente una volta, pazienza; quando mente spesso o sempre deve perdere ogni credibilità, se no è troppo facile. Non illudetevi: non se ne andrà. Certamente non dalle poltrone e dalla casta, meglio rassegnarsi; ma neppure dal potere, se allentiamo la vigilanza. Altro che dignità.

*** Francesco ERSPAMER, docente di studi italiani e romanza a d Harvard, Cosa centra la dignità?, 'Controanalisi', 5 dicembre 2016, qui



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