"Voi linguisti/della Crusca/saputelli siete troppo permissivi". "Beh, ma se la lingua è fatta dall'uso, allora di cosa stiamo a parlare?" "Ma figurarsi! Allora se io dico tante volte una certa parola, quella parola finirà nel dizionario?!"
Tante, tantissime volte, mi sento rivolgere queste accuse, o provoco, con le mie risposte, proteste simili. In realtà, la cosa non mi stupisce affatto, per due motivi.
Il primo è questo: a nessuno piace scoprire che le nozioni che aveva incamerato con grande impegno e fatica a scuola non sono più aggiornate. L'essere umano non è fatto per il cambiamento continuo, preferirebbe la stanzialità (anche della conoscenza). E quindi la replica "la mia maestra mi ha insegnato così" non è detta in cattiva fede, ma nasce dalla difficoltà di accettare che a) la maestra, magari, si sbagliava e b) la maestra aveva ragionissima, ma a distanza di dieci/venti/trent'anni le cose possono pure essere cambiate.
Il secondo motivo è che la maggior parte delle persone non arriva, per una serie di motivi, alla riflessione METAlinguistica, ossia a riflettere SULLA propria lingua o le proprie lingue (Perché la usiamo? Cosa sono i sinonimi? Cosa comporta usare una lingua rispetto a usarne un'altra? Che succede al mio cervello se conosco più lingue? Perché una lingua definisce certi concetti e un'altra ne definisce altri?, ecc.).
Mentre andavo in motorino, stamattina, pensavo a mia nonna Irén e a questa scenetta: io, adolescente, che cerco di imparare a cucinare uno dei miei dolci preferiti (per i magiarofoni: Gerbeaud-szelet) e la "intervisto" sulla sua ricetta della leccornia.
Mia nonna continuava a darmi indicazioni così:
"Prendi un po' di cioccolato..."
"Ma quanto, nonna?"
"Un po', senza esagerare, una tavoletta..."
"Ma una tavoletta come?"
"Classica, una tavoletta classica"
"E quale sarebbe una tavoletta classica?"
"Ma che ne so, io vedo a occhio..."
La stessa scena si ripeté per lo zucchero, la farina, la vaniglia, le noci e il resto degli ingredienti: per mia nonna erano "un po'", "a occhio", "quanto basta", "un pizzico", "una manciata", mentre io, stizzita, pretendevo grammi, millilitri, etti, quantità precise.
Alla fine me la presi pure, un po', dicendole che con quelle indicazioni vaghe non sarei mai riuscita a realizzare la ricetta. E lei mi replicò:
"Ma che ci posso fare se a forza di farla non faccio più caso alle dosi? Tanto, basta andare a occhio!"
Chi aveva ragione? Io, che, da cuoca alle prime armi, volevo la rigidità del misurino, la certezza del cucchiaino, la sicurezza della bilancia, o nonna Irén, che dopo cinquant'anni di esperienza aveva bisogno solo del "pressappoco"?
Penso che la conoscenza linguistica sia un po' così. La maggior parte di noi si ferma allo stadio del misurino; così ha imparato la grammatica, e così vuole continuare a conservarla e praticarla: grammi, cucchiaini, bilancia. Chi, invece, intraprende la strada del linguista, o ha semplicemente la fortuna di esercitare il muscolo della competenza metalinguistica, a forza di frequentare questo organismo così complesso, così in movimento, come è ogni lingua naturale, diventa come nonna Irén: misura a occhio, si regola in base all'istinto e all'esperienza e anzi, può arrivare al punto da basarsi quasi del tutto sull'orecchio, disimparando la regola sottesa o, cambiando punto di vista, quasi emancipandosi dal prescrittivismo.
Mi è giusto capitato ieri, davanti a un quesito che mi era stato posto, che solo con grande sforzo sono riuscita a spiegare come mai secondo me la frase non contenesse un errore. Non ricordavo affatto la regola, ma semplicemente la frase, a orecchio, mi suonava.
Quindi, la prossima volta che vi capitasse di ottenere una risposta apparentemente lassista, salomonica, comunque non netta, del tipo "si può dire sia così che colà", "dipende", "non c'è una regola, ma c'è una consuetudine" o anche "ormai questa cosa è accettata nell'uso", sappiate che in me c'è un pezzo di nonna Irén. Solo un pezzo, eh, che in realtà scopro cose nuove ogni giorno, e ogni giorno sono messa davanti al fatto che sono molte di più le cose che non conosco (anche in italiano) che quelle che conosco.
*** Vera GHENO, sociolinguista, facebook, 6 settembre 2018, qui
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