Oppenheimer accettò la direzione del progetto. Accettarono quasi tutti. Scienziati e militari lavorarono giorno e notte, rinchiusi in quella base, spinti dall’ossessione di mettere in pratica la formula che già possedevano sul piano teorico. E dovevano arrivarci prima che lo facesse il nemico. L’équipe lavorava con grande entusiasmo. All’inizio l’atmosfera sembrava quella di un campeggio estivo. In fin dei conti si trattava di una corsa, ma non una corsa qualsiasi, bensì la corsa dell’élite sportiva più competitiva: una gara di cervelli. Quando un genio raccoglie la sfida di battere sul tempo qualcun altro, è difficile che la coscienza di ciò che sta realizzando, cioè creare un mostro, lo induca a indietreggiare. Quando un intelletto si eccita, è difficile che un qualche senso etico ostacoli il desiderio di portare al culmine il piacere di trovare la soluzione a un problema della massima difficoltà. La possibilità di valicare i limiti della mente superava qualsiasi genere di remora morale. All’inizio scienziati e militari si scontravano su questioni etiche e politiche, ma fu evidente che si trattava di contrasti superficiali il giorno in cui vennero a sapere che i tedeschi non erano affatto vicini allo sviluppo di armamento nucleare e, per di più, la loro resa incondizionata era ormai ineluttabile. In quel momento gli scienziati dovettero affrontare la realtà: il motivo per cui erano stati ingaggiati, cioè arrivare per primi nella realizzazione dell’arma più distruttiva che fosse mai stata immaginata, aveva perso qualsiasi ragione di essere messa in pratica. Dunque, si trattava soltanto di continuare a lavorare alla creazione del mostro, ma non più per distruggere un altro mostro, bensì per guardarlo in faccia, farlo venire alla luce e, cosa che non potevano ancora sapere, battezzarlo, sganciandolo sulla popolazione civile giapponese. Così, nel novembre del 1944, il colonnello Boris Pash, comandante di Alsos Mission, incaricato di seguire gli sviluppi atomici dei nazisti, inviò un telegramma cifrato al generale Groves. Jim mi ha detto che il telegramma, il cui testo non sono stata in grado di smentire, annunciava: “La madre non ha partorito il neonato, non era neppure incinta, i dottori la ritengono sterile.” La sterilità della Germania, l’incapacità di assemblare la bomba, lasciò ai cervelli di Los Alamos la responsabilità di lavorare, da lì in avanti, non più per vincere una corsa per la pace, bensì per la guerra. Dopo i primi test denominati Trinity, Robert Oppenheimer, citando una frase del testo sacro induista Bhagavadgītā, avrebbe espresso così i propri sentimenti:
“Da oggi sono diventato Morte, il distruttore di mondi.”
*** Marina PEREZAGUA, 1978, scrittrice spagnola, Yoro, romanzo, 2015, La nave di Teseo, 2017
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