La nostalgia, il più dolce e il più insinuante di tutti i sentimenti che possiamo provare, il più vago e il più difficile da definire, perché fra tutti i sentimenti è quello in cui l’oggetto pesa meno rispetto alla traiettoria di desiderio, di tensione, che descrive – e probabilmente è per questo che non trova pace né soddisfazione, e non può averla mai – distilla, proprio per via dello struggimento che induce, il senso che tutto ciò verso cui tende sia speciale, unico, irripetibile al di fuori dell’illusione ritmata dalla memoria.
Per questo di nostalgia si ammalavano, nel Seicento, i mercenari svizzeri, che rimpiangevano cose banalissime e perciò insostituibili – i suoni dei corni, i canti dei vaccai che ascoltavano nelle sere della loro infanzia: che non erano niente di speciale, probabilmente, per nessun vaccaio e nemmeno per i loro fratelli, o i padri e le madri rimasti, dopo la partenza dei figli, fra le valli e le montagne ad ascoltare la monotonia di quei canti; ma per loro che li avevano persi, per loro che misuravano nella nostalgia la distanza dalle loro infanzie e il senso irreversibile della fine di una fase della vita, anche quei canti così semplici, così rozzi in fondo, diventavano un segno inestimabile, qualcosa di unico e prezioso.
*** Ilaria GASPARI, saggista, da La nostalgia della casa della mia infanzia nei giorni strani del virus, 'illibario.it', 12 aprile 2020, qui
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