Vecchi pensieri più volte pensati. Spesso discussi, nel corso di lunghi anni, anche in molte aule formative. Di aziende le più diverse. Pure ai livelli più alti.
Verrebbe da dire, a giudicare dai risultati in termini di cultura oggi prevalente - organizzativa, manageriale, sociale, politica - che forse è stato tempo buttato: un investimento inutile. Ma sarebbe il solito peccato di onnipotenza che commettono da sempre i sedicenti 'formatori': incapaci di sfuggire al dna con cui è nato il loro mestiere. Il mondo, per fortuna, è sempre più grande delle nostre vedute. E giustamente macina comportamenti anche indipendentemente da quanto noi 'predichiamo'. Perseguire la potenza è sano, specie se l'alternativa è l'impotenza. Ma cadere nell'onnipotenza è patologia: narcisistica. Se tutti possono influenzare e nessuno determina, il problema è saper esprimere influenza, ma non credere che il nostro individuale esercizio di influenza, di per sé, da solo, cambi il mondo. Non è consolazione, questa, per i risultati non raggiunti: è principio di realtà.
Così, qualunque cosa sul piano professionale io o i miei colleghi abbiamo detto in passato e tuttora diciamo (benché, visti i tempi, sia sempre più difficile oggi dire qualcosa in contrasto con la corrente dominante), nei fatti il modello culturale che continua a vincere è quello, tossico e perverso, del vincente. Ovunque.
E se ogni tanto questo schema esemplare non vince, comunque continua a piacere l'uomo che non deve chiedere mai: un'aspirazione diffusa, in chi vuole far carriera e in chi osserva e valuta chi fa carriera, che costituisce, consapevolmente o meno, la precondizione più produttiva per poi avere, nella posizione oggi maggioritariamente idealizzata, nelle imprese, in politica, nel sociale, sempre e soltanto un uomo solo al comando.
La velenosità di questa radicata convinzione è validata da una seconda convinzione, correlata e altrettanto consolidata: magari non viene espressa, per ragioni di ipocrita pudicizia, ma è quanto mai interiormente 'sentita' e dunque alla fine 'agìta', nonostante tutti gli inviti ossessionanti al saper lavorare in squadra, 'con' gli altri e non 'sugli' altri. Il convincimento, profondo e finora almeno non scalfito, è questo: un uomo che non comanda secondo lo schema 'vinco-io/perdi-tu' è un debole, inadatto alla leadership, forse addirittura non è un uomo.
In sostanza: il valore del machismo, introiettato nei secoli, è più vivo e perverso che mai.
Certo, la propaganda del retoricamente corretto inneggia, nei libri, nei seminari e nelle convention, al modello win-win: ma è appunto slogan, truffaldino pure al di là delle intenzioni, se poi la meritocrazia che si afferma nelle prassi, aziendali e non solo, anche perché tutta imperniata sull'immediato e priva di visione larga-e-lunga del futuro, penalizza/umilia il vincere condiviso (con-vincere) e premia/esalta il vincente che si impone sul perdente.
Del resto, una triste conferma dei valori dominanti in questo campo viene dalla costatazione, del tutto riscontrabile nelle esperienze di molti, che, con variazioni minime e puramente estetico-formali, in posizioni di carriera, le rare volte in cui alla donna è concesso di esserlo, è accettata/legittimata, in via fortemente preferenziale, la donna in similmaschio: quella che sa farsi valere imitando la virilità deviata del maschio autoritario. Un tipo di donna aggressiva e 'con le palle', che ignora l'autorevolezza, ben più solida, delle 'spalle' (ovviamente per lei disponibili 'per via naturale'); che è rigorosamente munita, e non solo metaforicamente, di pantaloni e tacchi a spillo, più ancora da ostentare che da indossare; ed è capace di mortificare il femminile che da tempo non è più in lei. Con tanti saluti alla diversity: sempre omaggiata e applaudita nelle convention che spostano solo aria.
Così, qualunque cosa sul piano professionale io o i miei colleghi abbiamo detto in passato e tuttora diciamo (benché, visti i tempi, sia sempre più difficile oggi dire qualcosa in contrasto con la corrente dominante), nei fatti il modello culturale che continua a vincere è quello, tossico e perverso, del vincente. Ovunque.
E se ogni tanto questo schema esemplare non vince, comunque continua a piacere l'uomo che non deve chiedere mai: un'aspirazione diffusa, in chi vuole far carriera e in chi osserva e valuta chi fa carriera, che costituisce, consapevolmente o meno, la precondizione più produttiva per poi avere, nella posizione oggi maggioritariamente idealizzata, nelle imprese, in politica, nel sociale, sempre e soltanto un uomo solo al comando.
La velenosità di questa radicata convinzione è validata da una seconda convinzione, correlata e altrettanto consolidata: magari non viene espressa, per ragioni di ipocrita pudicizia, ma è quanto mai interiormente 'sentita' e dunque alla fine 'agìta', nonostante tutti gli inviti ossessionanti al saper lavorare in squadra, 'con' gli altri e non 'sugli' altri. Il convincimento, profondo e finora almeno non scalfito, è questo: un uomo che non comanda secondo lo schema 'vinco-io/perdi-tu' è un debole, inadatto alla leadership, forse addirittura non è un uomo.
In sostanza: il valore del machismo, introiettato nei secoli, è più vivo e perverso che mai.
Certo, la propaganda del retoricamente corretto inneggia, nei libri, nei seminari e nelle convention, al modello win-win: ma è appunto slogan, truffaldino pure al di là delle intenzioni, se poi la meritocrazia che si afferma nelle prassi, aziendali e non solo, anche perché tutta imperniata sull'immediato e priva di visione larga-e-lunga del futuro, penalizza/umilia il vincere condiviso (con-vincere) e premia/esalta il vincente che si impone sul perdente.
Del resto, una triste conferma dei valori dominanti in questo campo viene dalla costatazione, del tutto riscontrabile nelle esperienze di molti, che, con variazioni minime e puramente estetico-formali, in posizioni di carriera, le rare volte in cui alla donna è concesso di esserlo, è accettata/legittimata, in via fortemente preferenziale, la donna in similmaschio: quella che sa farsi valere imitando la virilità deviata del maschio autoritario. Un tipo di donna aggressiva e 'con le palle', che ignora l'autorevolezza, ben più solida, delle 'spalle' (ovviamente per lei disponibili 'per via naturale'); che è rigorosamente munita, e non solo metaforicamente, di pantaloni e tacchi a spillo, più ancora da ostentare che da indossare; ed è capace di mortificare il femminile che da tempo non è più in lei. Con tanti saluti alla diversity: sempre omaggiata e applaudita nelle convention che spostano solo aria.
Mi paiono pensieri banali questi che, cocciutamente, ripropongo. Forse un po' duri e provocatori, anche per colpire l'essenza del problema. Ma scontati. E, appunto per questo, poco o nulla contati (nel senso di 'presi in considerazione' e 'fatti contare').
Ho smesso di sorprendermi della persistenza e del non cambiamento del tema (quando non del suo peggioramento), ma, anche stavolta come si vede, non ho smesso di insistere: perché continuo a credere che una presa in considerazione di queste riflessioni, o una loro rimozione, non è senza conseguenze concrete. Sono infatti considerazioni che, in qualunque direzione sviluppate, colpiscono il cuore del nostro vivere e convivere e hanno contraccolpi diretti sul capire e sul relazionarsi di ognuno di noi: al lavoro, nel sociale, in politica.
Ho smesso di sorprendermi della persistenza e del non cambiamento del tema (quando non del suo peggioramento), ma, anche stavolta come si vede, non ho smesso di insistere: perché continuo a credere che una presa in considerazione di queste riflessioni, o una loro rimozione, non è senza conseguenze concrete. Sono infatti considerazioni che, in qualunque direzione sviluppate, colpiscono il cuore del nostro vivere e convivere e hanno contraccolpi diretti sul capire e sul relazionarsi di ognuno di noi: al lavoro, nel sociale, in politica.
Già, capire, innanzitutto. Dal latino capere. Prendere, afferrare. Ben simbolizzato dall'organo sessuale maschile, che nella sua forma linguistica volgare riprende esattamente l'etimologia del verbo.
Ma anche contenere, ricevere, accogliere. Non ci cape, ripetono ancora in alcune zone d’Italia. Come a dire: non c’entra. Come rivelano, ancor più evidentemente, i due termini di capace e recipiente.
Due significati polari. Opposti.
Insomma: farsi tazza (codice femminile) per poi prendere ciò che si è accolto (codice maschile).
Se mancano i due codici, da attivare insieme e in sinergia, il rischio (la certezza: stando alla cultura dominante) è che si prenda solo ciò che si crede di prendere. E si capisca poco o niente della realtà e dell'altro. Salvo poi impancarsi in cattedra pretendendo di imporre il poco, o il niente, o il non capito, che si è convinti di sapere senza mai averlo davvero ap-preso.
Due significati polari. Opposti.
Insomma: farsi tazza (codice femminile) per poi prendere ciò che si è accolto (codice maschile).
Se mancano i due codici, da attivare insieme e in sinergia, il rischio (la certezza: stando alla cultura dominante) è che si prenda solo ciò che si crede di prendere. E si capisca poco o niente della realtà e dell'altro. Salvo poi impancarsi in cattedra pretendendo di imporre il poco, o il niente, o il non capito, che si è convinti di sapere senza mai averlo davvero ap-preso.
Sì, in mezzo a tanto americano, usato anche a sproposito, il latino potrebbe continuare a servirci proprio per capire. E dunque, anche, per consentirci di relazionarci meglio con tutto ciò che ci circonda, mondo fisico e mondo sociale. Offrendoci un’epistemologia semplice, ma quanto mai positivamente fertile e generativa: sintetizzabile nel concetto di un sano atteggiamento di ambivalenza attiva, da declinare poi in comportamento conseguente, come unico vero modo intelligente (anche qui l'etimologia di 'inter/intus-legere' aiuterebbe) per entrare in rapporto, aperto e fecondo, con la complessità, intrinseca e ineliminabile, di cose e persone, in cui siamo immersi.
Tutto questo per vincere (e qui davvero il verbo è quanto mai appropriato) due posture psicologiche opposte, una più pericolosa dell'altra: l’arroganza di chi è dogmaticamente convinto di sapere sempre già tutto, quasi fosse 'nato imparato' e predestinato a imporre il suo sapere e la sua volontà a chiunque, per definizione considerato in posizione down, e la sudditanza dei più, magari anche sofferta e rancorosa, ma sempre supinamente pronta a farsi abbindolare dall'apparente carisma di chi 'ce la racconta' e ci induce a fare (o a essere) ciò che lui (e non noi) vuole che facciamo (o siamo).
In conclusione: un po’ di consapevole androginia ci salverebbe.
E urge.
Per capire davvero. O almeno per capire di più.
E per affermare noi stessi, nelle relazioni con gli altri, in modo più autentico: alla fine più efficace, oltre che dignitoso.
E urge.
Per capire davvero. O almeno per capire di più.
E per affermare noi stessi, nelle relazioni con gli altri, in modo più autentico: alla fine più efficace, oltre che dignitoso.
*** Massimo Ferrario, Per capire e relazionarsi, urge un po' più di androginia
In Mixtura ark #Spilli di Massimo Ferrario qui
In Mixtura ark #Spilli di Massimo Ferrario qui
Come sempre sei foriero di pensieri, e questo è difficile da perdonarti. Quindi per ricambiare posto un minimo stimolo supplettivo, a proposito del senso di vincere: spesso diciamo che lo sport è maestro di vita, e in molte cose è anche vero. Ma in una cosa almeno è un falso riferimento: perchè in nessuno sport esiste vittoria senza sconfitta, il pareggio è penalizzato sempre come una mezza sconfitta, il quarto è solo uno sfigato giù dal podio, ma pure il secondo ha tanto da piangere comunque (vedi quante lacrime alle Olimpiadi per esempio). Questo concetto ce lo becchiamo tutti fin da piccolissimi, direi come un imprinting relazionale, che diventa così dificilissimo da cancellare. E invece, seguendo anche il tuo ragionamento, questo sfozo di rifondazione mentale andrebbe davvero fatto, a tutti i livelli.
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