mercoledì 22 gennaio 2020

#LIBRI PREZIOSI / "Potere alle parole", di Vera Gheno (commento di Massimo Ferrario)

Vera GHENO
Potere alla parole. Perché usarle meglio
pagine 170, Einaudi, 2019, € 13,00, ebook 3,99

Quando apprendere è godimento
Ho smesso di scrivere recensioni ai libri che leggo: era diventato un 'compito', sia pure autoinflitto, e sono nella fortunata età in cui posso decidere cosa fare, scegliendo solo ciò che mi piace. 
L'eccezione non annulla la regola: che rimane. 
Ma il libro di Vera Gheno, Potere alle parole, appena posato, mi 'impone' un commento, almeno veloce: e non so resistere. 
A scanso di equivoci chiarisco che non me lo chiede l'autrice, che conosco solo virtualmente, per essermi gustato altre sue letture e per seguirla sempre con interesse sui social; ma lo 'pretende' il suo volumetto, appena pubblicato.
Per chi ama la lingua italiana senza essere un esperto, il breve saggio è godimento puro: per contenuto e forma, che si esaltano a vicenda.
Anche chi maneggia la lingua italiana con una qualche disinvoltura grazie al privilegio di aver acquisito un certo grado di acculturamento, prima perseguito a scuola e poi alimentato con costanza in chiave autodidattica, trova preziosità non scontate: ed è subito un goloso apprendimento. Di cose non sapute. O di cose sapute in modo sbagliato. Ma anche di conferme per talune convinzioni radicate, benché quotidianamente messe in discussione dalle tendenze evolutive (o 'involutive'?) in atto. 
E poi, per nulla secondario, c'è lo stile: niente accademia, massima chiarezza e precisione, documentazione inoppugnabile, scrittura fluida, leggerezza e sottile ironia.

Insomma, non è un romanzo e il taglio saggistico, pure di alta qualità, c'è tutto; ma le pagine filano che è un piacere. E alla fine l'unico dispiacere è non poter continuare la conversazione, magari dal vivo, a tu per tu con l'autrice: per confrontarsi, approfondire, avere ulteriori suoi pareri, argomentati e sempre scrupolosamente documentati.

Più che condivisibile, credo anche per chi come me ha una pulsione 'rigorista' alla grammatica che qualche volta lo 'perseguita' ossessivamente come lascito di un'educazione severamente formalistica d'altri tempi, è l'equilibrio intelligente con cui Vera Gheno cerca di ricordare la 'giusta misura' tra un approccio puramente 'descrittivo' e uno più 'prescrittivo' ad ogni lingua e in particolare all'italiano. Ogni idioma, se è vivo, è animato e tenuto vivo da chi lo parla: i parlanti, e non gli specialisti, sono gli unici titolati, nell'uso maggioritario che ne fanno, a farlo evolvere. E, per questo, anche l'italiano è sempre in movimento: muta, accoglie nuove regole e nuove parole, anche da altre lingue, crea nuovi termini, manda in soffitta lemmi e formalismi ieri considerati assoluti e inscalfibili, cambia il colore degli errori, da blu a rossi, magari anche non classificandoli più errori.

Non è facile, qui come in ogni campo, percorrere il crinale della 'via di mezzo': su questo terreno, al linguista e agli accademici, ancor più se circonfusi dall'aura della Crusca, si chiede, e spesso si pretende, una 'prescrizione', che tagli i nodi con la spada: si fa così e basta, no a questa parola e sì a quest'altra, questo è un errore blu, guai a scrivere questo o quello.
Vera Gheno, però, forte della sua competenza sofisticata di sociolinguista e anche ricordandoci la sua esperienza passata di collaboratrice dell'Accademia della Crusca, riesce perfettamente a offrire una proposta misurata: riflettuta, critica, documentata. Le regole, nella lingua come altrove, devono esserci: altrimenti i parlanti non si parlerebbero più e qualunque comunità impazzirebbe come una maionese non riuscita, andata insieme perché incapace di stare insieme. Ma le regole vanno relativizzate: al contesto specifico e al particolare registro in uso, cercando sempre di cogliere quella corrente di fondo, e non l'onda breve di superficie, che spinge una lingua a mantenersi viva proprio perché sempre più parlata e scritta, anche 'piegata' ai nuovi costumi e 'strattonata' rispetto ai formalismi consolidati. Dunque in mutamento costante.

Conoscere e capire le ragioni delle trasformazioni consente di padroneggiare parole, grammatica e sintassi: e chi parla 'bene' pensa 'bene' e discute meglio.
In definitiva nulla di nuovo, ma non molto scontato in pratica: dando potere alle parole, si acquista più potere sulla realtà. E' la grande verità di Lorenzo Milani (Lettera a una professoressa, 1967): «L’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo è lui il padrone.»
Quando lo capiremo e lo metteremo in atto, saremo più padroni e meno sudditi.

Massimo Ferrario, per Mixtura

CITAZIONI

(1) - «Ecco, gli errori sono un po’ come l’alitosi: distraggono dal contenuto della comunicazione e si prendono inevitabilmente le luci della ribalta, concentrando su di sé tutta l’attenzione. Potremmo immaginarci un’altra scenetta. Abbiamo pensato a lungo a cosa metterci. Perfino l’intimo è coordinato. I capelli sono puliti e sistemati alla perfezione. Gli abiti lavati di fresco e stirati. Le scarpe lucide. Le unghie corte e in ordine. Nessun pelo fuori posto. Attitudine tranquilla ma non spavalda, empatica ma non mielosa. Stringiamo la mano con l’intensità giusta. Mano che è ferma, asciutta, sicura, proprio come ci hanno insegnato. Se non fosse per quel rovinoso pezzo di prezzemolo incastrato tra i denti di cui non ci eravamo accorti, e che si vede tutte le volte che sorridiamo. Per me, ogni citazione colta, coltissima, nella quale c’è un accento sbagliato, un errore di ortografia o un nome straniero con la grafia errata, appare esattamente cosí. Elegante, con un ciocco di prezzemolo tra i denti.» (Vera GhenoPotere alla parole. Perché usarle meglio, Einaudi, 2019)

(2) - «Un popolo cognitivamente povero è una vera manna per populismi, manipolazioni, reazioni di pancia; che non possono essere eliminati, ma semplicemente controbilanciati da cittadini che alla pancia (pur importantissima: per la medicina orientale, l’intestino è il secondo cervello) e al cuore (altrettanto necessario) affiancano l’uso del cervello: un organo cosí sofisticato da essere, per molti aspetti, irriproducibile nella sua complessità. Oggi possiamo lamentarci della decadenza culturale della «ggènte», sport preferito di molti, oppure iniziare a ragionare sulle contromisure da adottare rispetto a tale supposta decadenza.» (Vera GhenoPotere alla parole. Perché usarle meglio, Einaudi, 2019)

(3) - «Mi è capitato recentemente, alla fine di una conferenza, di subire un pizzico di mansplaining, parola che indica l’atteggiamento che assume un uomo quando decide di «spiegare le cose» a una donna in tono smaccatamente paternalistico (talvolta tradotta in italiano come minchiarimento) da parte di un signore di una certa età. Il suo intervento – che, come spesso succede alle conferenze, non era una domanda – verteva sull’indignazione per il fatto che tutti, ma proprio tutti, perfino intellettuali e giornalisti, usassero il modo di dire piantare in asso, secondo lui assolutamente errato. Quanta ignoranza, signora mia! Come possiamo pensare di cambiare le cose, e migliorare le magnifiche e progressive sorti della nostra lingua, se nessuno corregge l’errore? È evidente che piantare in asso è sbagliato, perché il modo di dire viene da un episodio della mitologia greca, nel quale Arianna abbandona Teseo sull’isola di Nasso: si deve dire piantare in Nasso! Ho spiegato al signore che basta aprire un dizionario per verificare che il modo di dire, quale che sia la sua origine (la maggior parte degli etimologici lo riporta all’asso delle carte, piú che al mito dell’antica Grecia), oggi è piantare in asso e che, per una volta, nessuno sbaglia. Non sarebbe strano, peraltro, anche se il detto nascesse da un errore; fatto sta che oggi è cosí, e il riferimento a Nasso si è perso nel tempo. Il signore, che forse aveva cercato in me una sponda, è rimasto deluso dal fatto che io lo abbia contraddetto. A fine risposta, si è alzato e se n’è andato apparentemente seccato. Gli avevo rovinato la festa.» (Vera GhenoPotere alla parole. Perché usarle meglio, Einaudi, 2019)


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