Capita.
Anche senza che la maledetta malattia fisica
prenda la forma del Grande Mostro
che tortura il corpo e sconcia la dignità:
quando il vivere è diventato solo un automatico
funzionare
e l'anima se n'è andata
lasciandoci disfatti e appesi alle macchine
accese al nostro posto.
Capita.
E non sempre c’è l'incubazione
che trapana nel tempo:
lenta, lunga, tortuosa, travagliata.
Può anche essere un disagio sottile,
acuminato e persistente:
che lievita impercettibile ma dolente,
come un cancro mai riconosciuto
che fa a pezzi l'anima e divora l'esistenza:
da tanto, che più non ricordiamo.
Capita.
Allora il gesto può essere improvviso:
ed è l’ultimo, quello definitivo.
Perché basta poco per vivere,
ma quel poco, qualche volta,
è tantissimo.
Troppo.
E se nessuno sceglie l’inizio,
qualcuno di noi ce la fa a scegliere
la fine.
Capita.
Ma quel qualcuno di noi meriterebbe
rispetto.
Quel qualcuno di noi meriterebbe
il silenzio
che non azzarda parole,
perché ogni parola qui è stupro:
tanto il giudizio supponente
- che ignora,
quanto il compatimento falsamente benevolo
- che non comprende.
Quel qualcuno di noi meriterebbe
l'inchino
di chi devotamente sa ospitare il mistero
e non s'arrischia a interpretare un atto
che affonda in un pozzo
nero e profondo come l'infinito:
e che rende il senso di quel gesto di fine
forse nebuloso, sfuggente e non pienamente decifrabile
anche a chi non ha retto la vita
non ritenendola vita.
*** Massimo Ferrario, Quel qualcuno di noi, 2019, per Mixtura
In Mixtura ark #SguardiPoietici di Massimo Ferrario qui
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