Alessandro BERTANTE, "Gli ultimi ragazzi del secolo"
Giunti, 2016
pagine 224, € 16,00, ebook € 7,99
Testo di presentazione dell'Editore - Citazioni a cura di Mixtura
Luglio 1996. Un viaggio estivo in Croazia porta il protagonista, insieme a un amico, fino a Mostar e a Sarajevo, per toccare con mano i segni di una guerra non ancora finita. Attraversando con una Panda le montagne bosniache, Bertante racconta con pagine toccanti e di grande impatto narrativo le devastazioni e le paure del conflitto balcanico, una storia che ci riguarda più di quanto siamo stati ancora in grado di capire.
Durante questo avventuroso percorso di formazione, il narratore si mette a nudo con coraggio, raccontando la sua generazione cresciuta negli anni Ottanta, un serpente che vediamo snodarsi attraverso le canzoni, i film, l’abbigliamento, l’esplosione della tv commerciale, Drive In e i paninari, la new wave e i centri sociali, fino alla mattanza delle droghe pesanti e alla tragedia dell’AIDS. Anni Ottanta che paiono trovare nella guerra in Iraq e in Mani pulite la loro conclusione per spegnersi nella prima metà del decennio successivo tra l’ascesa di Berlusconi e la fine della guerra nella ex Jugoslavia.
Gli ultimi ragazzi del secolo è un romanzo crudo e potente dove la memoria di un adolescente randagio e ribelle si fonde con l’incauta, dolorosa presa di coscienza di un giovane uomo di fronte al dramma della Storia, al suo incedere feroce, struggente, radicalmente insensato.
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La storiella era molto semplice e funzionava. Il politico incarnava la cosa pubblica e la cosa pubblica era lorda fino alle fondamenta. Tutto era diventato lecito, tutto si poteva fare, anche votare il cavaliere Silvio Berlusconi da Arcore. Lui si presentava innamorato dell’Italia, vicino alla gente, lontano dalla vecchia politica, era un uomo che si era fatto da solo, costruendo un impero con il proprio lavoro. Prometteva un nuovo miracolo economico, eccitando i bassi istinti e la credulità popolare. Era rassicurante e accessibile, parlava come noi, aveva i nostri stessi sogni e anche i nostri difetti: il narcisismo, la maleducazione, la galanteria da quattro soldi, l’opportunismo, la totale mancanza di senso civico e il disprezzo tanto per le regole quanto per la parola data. Silvio Berlusconi era, senza troppe sfumature, uno di noi quando siamo al nostro peggio, era lo stereotipo negativo dell’italiano piacione e intrallazzone che finalmente s’emancipava dal suo ruolo di macchietta sopportato con un sorriso di scherno, ascendendo a modello culturale dominante.
Se gli anni Ottanta avevano risvegliato un’energia prepotente e velleitaria, il loro crepuscolo non poteva fare altro che aprire la strada a uno spettacolo caricaturale, tipico di ogni fase di decadenza. Per quanto mi riguarda e senza nessuna incertezza, interpretai il suo vittorioso esordio in politica come un fatto ineluttabile, il naturale epilogo di un percorso storico. Silvio Berlusconi era il nostro destino di italiani, la nostra atavica superstizione finalmente lasciata libera di scatenarsi. Silvio Berlusconi terminava in modo esemplare l’oscuro percorso della mia generazione.
Ma nei suoi confronti non ebbi mai un sentimento di odio e nemmeno di rancore, non mi veniva la schiuma alla bocca come ad altri miei coetanei, non gridavo allo scandalo indignandomi per il conflitto d’interessi e per la ferita inferta alla nostra democrazia. Nessuno pensi di assolversi, l’hanno già fatto in troppi e con risultati desolanti.
Sarebbe un grave errore considerare Silvio Berlusconi l’unica causa di questo nostro clamoroso deterioramento civile. L’imprenditore di Arcore è il sintomo più importante e duraturo, un’esemplare lezione estetica, della profonda crisi etica e culturale che ha colpito l’Italia e soprattutto la sua borghesia alla fine degli anni Sessanta, giunta a maturazione negli anni Ottanta. Quello che ci hanno raccontato dopo è solo una narrazione consolatoria.
Io ne ho abbastanza. (Alessandro Bertante, "Gli ultimi ragazzi del secolo", Giunti, 2016)
Noi siamo stati gli ultimi ragazzi del secolo, adesso ce ne andiamo per sempre, senza rimpianti né sensi di colpa.
Non abbiamo avuto ragione, non ogni volta, questa sciocca pretesa è diventata una debolezza che ha condizionato tutte le nostre scelte. Ora ci sbarazziamo di ogni eredità e della stanchezza di sentirci generazione mancata. Abbandoniamo il vecchio mondo e le sue categorie interpretative, il tempo in cui la conoscenza del passato presupponeva l’esistenza di un futuro migliore. In questi petulanti anni Novanta, in questo fumoso decennio di esperimenti, sta innescandosi la scintilla di una nuova origine e non importa se la memoria sta svanendo, se sentiremo la mancanza delle nostre certezze e delle nostre illusioni, declassate ad abitudini; abbandoniamo finalmente la sensazione di essere arrivati in ritardo, dopo qualcosa che comunque non ci è appartenuto. (Alessandro Bertante, "Gli ultimi ragazzi del secolo", Giunti, 2016)
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La storiella era molto semplice e funzionava. Il politico incarnava la cosa pubblica e la cosa pubblica era lorda fino alle fondamenta. Tutto era diventato lecito, tutto si poteva fare, anche votare il cavaliere Silvio Berlusconi da Arcore. Lui si presentava innamorato dell’Italia, vicino alla gente, lontano dalla vecchia politica, era un uomo che si era fatto da solo, costruendo un impero con il proprio lavoro. Prometteva un nuovo miracolo economico, eccitando i bassi istinti e la credulità popolare. Era rassicurante e accessibile, parlava come noi, aveva i nostri stessi sogni e anche i nostri difetti: il narcisismo, la maleducazione, la galanteria da quattro soldi, l’opportunismo, la totale mancanza di senso civico e il disprezzo tanto per le regole quanto per la parola data. Silvio Berlusconi era, senza troppe sfumature, uno di noi quando siamo al nostro peggio, era lo stereotipo negativo dell’italiano piacione e intrallazzone che finalmente s’emancipava dal suo ruolo di macchietta sopportato con un sorriso di scherno, ascendendo a modello culturale dominante.
Se gli anni Ottanta avevano risvegliato un’energia prepotente e velleitaria, il loro crepuscolo non poteva fare altro che aprire la strada a uno spettacolo caricaturale, tipico di ogni fase di decadenza. Per quanto mi riguarda e senza nessuna incertezza, interpretai il suo vittorioso esordio in politica come un fatto ineluttabile, il naturale epilogo di un percorso storico. Silvio Berlusconi era il nostro destino di italiani, la nostra atavica superstizione finalmente lasciata libera di scatenarsi. Silvio Berlusconi terminava in modo esemplare l’oscuro percorso della mia generazione.
Ma nei suoi confronti non ebbi mai un sentimento di odio e nemmeno di rancore, non mi veniva la schiuma alla bocca come ad altri miei coetanei, non gridavo allo scandalo indignandomi per il conflitto d’interessi e per la ferita inferta alla nostra democrazia. Nessuno pensi di assolversi, l’hanno già fatto in troppi e con risultati desolanti.
Sarebbe un grave errore considerare Silvio Berlusconi l’unica causa di questo nostro clamoroso deterioramento civile. L’imprenditore di Arcore è il sintomo più importante e duraturo, un’esemplare lezione estetica, della profonda crisi etica e culturale che ha colpito l’Italia e soprattutto la sua borghesia alla fine degli anni Sessanta, giunta a maturazione negli anni Ottanta. Quello che ci hanno raccontato dopo è solo una narrazione consolatoria.
Io ne ho abbastanza. (Alessandro Bertante, "Gli ultimi ragazzi del secolo", Giunti, 2016)
Noi siamo stati gli ultimi ragazzi del secolo, adesso ce ne andiamo per sempre, senza rimpianti né sensi di colpa.
Non abbiamo avuto ragione, non ogni volta, questa sciocca pretesa è diventata una debolezza che ha condizionato tutte le nostre scelte. Ora ci sbarazziamo di ogni eredità e della stanchezza di sentirci generazione mancata. Abbandoniamo il vecchio mondo e le sue categorie interpretative, il tempo in cui la conoscenza del passato presupponeva l’esistenza di un futuro migliore. In questi petulanti anni Novanta, in questo fumoso decennio di esperimenti, sta innescandosi la scintilla di una nuova origine e non importa se la memoria sta svanendo, se sentiremo la mancanza delle nostre certezze e delle nostre illusioni, declassate ad abitudini; abbandoniamo finalmente la sensazione di essere arrivati in ritardo, dopo qualcosa che comunque non ci è appartenuto. (Alessandro Bertante, "Gli ultimi ragazzi del secolo", Giunti, 2016)
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