Bruno ARPAIA, "Qualcosa, la fuori"
Guanda, 2016
pagine 220, € 16,00, ebook
Non è fantascienza
Se nella fantascienza predomina la fantasia e la scienza, pur trasfigurata e amplificata nei suoi aspetti più avveniristici e immaginifici, ne è al servizio, quest'ultima opera di Bruno Arpaia, per quanto ricca di sollecitazioni visionarie, sembra operare al contrario: si parte dal rigore scientifico delle tante ricerche che ormai mettono in guardia sul prossimo 'punto di non ritorno' climatico cui il Pianeta sta arrivando, per raffigurare uno scenario che, se non è l'apocalisse, comunque si avvicina al collasso dell'umanità.
E quel che colpisce, quasi fisicamente, come se stringesse la pancia del lettore che assiste inerme alle descrizioni minuziose e cupe di 'questo' terrificante e possibile futuro, ha due aspetti.
Il primo è dato dal fatto che questo domani è proprio domani: collocabile a non più di una quarantina d'anni da oggi. Perché lì è immaginata la storia. E la storia, quindi, a parte i 'fortunati' anziani che non saranno più di questo mondo, riguarda davvero tutti: giovani e adulti, e non solo i nostri figli e nipotini.
Ma la seconda ragione, che rende il romanzo così prepotentemente e spaventevolmente realistico, è la credibilità di quanto raccontato, senza gli effettacci spettacolari di certe distopie. La vicenda, infatti, non si libra nell'immaginario: l'autore non 'inventa', ma costruisce la sua finzione traendo le conseguenze da una osservazione senza sconti della realtà di oggi. Gli è bastato prendere spunto dai processi di degrado, climatico, sociale e umano, già abbondantemente in atto: li ha proiettati a qualche decennio e il risultato, estremizzato, appare appunto estremizzato solo a chi non sa cogliere le tendenze, o fa lo struzzo per non pensare e restare nella prigione creduta dorata del presente, incurante del muro verso cui andremo a sbattere se non correggeremo la traiettoria.
E' un libro duro, dolente: si legge ansimando, toccati dalla 'piccola' storia dell'anziano professore di neuroscienze, prostrato da una vicenda familiare che pare averlo chiuso per sempre alla vita, ma soprattutto 'avvolti' dalla grande trasmigrazione di massa, in cui anche il pover'uomo è penosamente trascinato, e che fa da vera protagonista del racconto. La natura non ha retto all'azione egoistica e dominante dell'uomo e l'ecocidio si sta compiendo: il clima è 'saltato'; la desertificazione avanza e uccide le città; mari che allagano le coste e distruggono i paesi; fiumi rinsecchiti, fango e polvere dappertutto; acqua col contagocce, da conquistare e difendere con la vita; moltitudini in cammino verso il Nord Europa, sempre più fortificato e respingente, ma dove la temperatura mite, ancora, sembra assicurare la sopravvivenza.
Le immagini televisive quotidiane che ci restituiscono lo sbarco di chi è riuscito a non finire nel grande cimitero del Mediterraneo, fuggendo da guerre, fame e siccità, diventano il film planetario di questo straordinario romanzo, che disegna un futuro moribondo con tocchi epici che sanno di passato. L'identificazione è immediata e allucinante: gli emigranti che sognano il paradiso non sono più i consueti africani, verso cui siamo soliti esercitare la nostra quotidiana xenofobia, ma vengono da tutto il mondo, e noi siamo tra questi, e il sogno di tutti, noi italiani compresi, almeno finché anche lì non arriverà il degrado definitivo, è toccare la terra promessa della Scandinavia.
Ci sono libri indispensabili: questo è uno di quelli. Perché una volta che abbiamo deciso di accostarvici e abbiamo aperto la prima pagina, pretende che non lo lasciamo e ci apre gli occhi anche quando li vorremmo tenere chiusi. E poi, cosa non secondaria specie oggi, perché Arpaia è scrittore di razza e sa alimentare in chi legge quella commossa e partecipe sofferenza che può essere lievito per una crescita di consapevolezza.
Sempre che non abbiamo ancora perso del tutto la speranza o non vogliamo tenere la testa sotto la sabbia. Perché in questo caso il romanzo è rassicurante: la sabbia è l'unica cosa che anche domani non ci mancherà.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Era un pianto spossato, il pianto di chi ha già pianto troppo: era un resto, un avanzo di pianto. «Su, su, signora... Va tutto bene adesso» cercò di consolarla Marta. Ma lei scosse la testa, come se qualcuno potesse vederla nell’oscurità. «Non è per me, non solo» mormorò alla fine, tra un singhiozzo e l’altro. «È per quei poveretti, per quei morti... Questa è la loro acqua, in fondo... E stavano soltanto difendendola...» Calò un silenzio inospitale, opaco. Poi solamente Aziz trovò un po’ di coraggio per parlare. «O noi o loro» disse. «Senza quest’acqua, saremmo morti tutti.» (Bruno Arpaia, "Qualcosa, la fuori", Guanda, 2016)
Due giorni dopo, caricarono i pochi feriti sui carri e si rimisero faticosamente in cammino. Era una mattinata densa, con un cielo grigio come una lavagna. Il caldo già opprimeva i bronchi anche se l’alba era spuntata da poco. Percorsero il lungolago seguendo i binari della ferrovia e si lasciarono alle spalle la periferia di Bregenz. La strada, ricoperta di dune di sabbia, correva lungo la costa piatta, poi, dietro le ultime propaggini del monte Pfänder, davanti a loro si spalancò l’altopiano tedesco: per quanto Livio scrutasse con il binocolo, vedeva soltanto chilometri e chilometri di una regione scabra, di terra quasi sterile punteggiata di agavi e di arbusti, di moncherini di alberi, di grappoli di cavi che penzolavano dai pali della luce, con sullo sfondo colline brulle e remote, sorvolate da rari uccelli affamati. Qui e là baracche di lamiera, fienili abbandonati, telai di automobili, fattorie senza più pareti e trattori in disarmo in mezzo ai campi aridi. Ogni tanto, dopo che gli esploratori ne avevano verificato la sicurezza, attraversavano paesi e cittadine deserti, vagando in mezzo all’immondizia e alle macerie, ai negozi saccheggiati molti anni prima, alle auto e alle statue ricoperte di polvere. (Bruno Arpaia, "Qualcosa, la fuori", Guanda, 2016)
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