Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera"
Feltrinelli, 2015
pagine 122, € 13,00, ebook € 9,99
Senza fiato
E' un oggetto strano, questo ultimo libro di Concita de Gregorio Mi sa che fuori è primavera; ma proprio per questo coinvolge nella lettura come più non potrebbe.
La storia, rielaborata nel corso di lunghi colloqui tra la scrittrice e chi si è trovato al centro di quel terribile fatto di cronaca accaduto in Svizzera nel 2011, subendone tutto l'infinito dolore, non è né un freddo resoconto giornalistico (le cose sono ormai note e purtroppo nessuna novità si è aggiunta), né una pura trasfigurazione romanzata della realtà. E' invece, in qualche modo, un mix ben bilanciato di ricostruzione e invenzione, che cerca di restituire al lettore, soprattutto, la psicologia della protagonista, scavata il più possibile attraverso gli occhi, e il cuore, di lei stessa.
Il risultato, anche grazie alla fattura e allo stile, lascia senza fiato.
Lei, Irina, italiana di cultura internazionale, avvocato di successo presso una multinazionale, sposata e con due gemelline di sei anni, decide la separazione dal marito, Mathias, svizzero. Tutto sembra svolgersi civilmente fino a quando, qualche giorno prima della presentazione delle pratiche formali per il divorzio, il marito scompare con le figlie. Verrà trovato morto suicida dopo una settimana, al termine di un inspiegabile viaggio dalla Svizzera in Puglia, mentre la moglie riceverà un suo biglietto che annuncia che le figlie «riposano in un luogo tranquillo e non hanno sofferto».
Concita De Gregorio entra nell'anima di Irina e tenta di riprodurne lo sconvolgimento, riandando ai fatti ma anche stando al presente. Lo fa con una scrittura intensa, colorata, spesso poetica, mai retorica, a tratti inquietante: che sa trattare il dolore con rispetto profondo e senza pietismo, cogliendone gli abissi senza fine; ma che sa trovare anche le parole giuste per far capire che è possibile, anche doveroso, continuare. Mai dimenticando ciò che peraltro non può essere dimenticato, ma senza farsi distruggere dai ricordi. E pure, persino, aprendosi a quelle nuove felicità (l'amore di Irina con Luis), che la vita offre: perché questo non intacca minimamente la densità, inestinguibile, degli affetti perduti.
Oltre allo stile, colpisce il modo in cui il libro viene mano a mano composto: a frammenti. Quasi per meglio replicare, con questa scelta, le spaccature dell'anima della protagonista, che mescola angoscia, sconforto, ostinazione, dolore, ira, protesta e ancora, nonostante tutto, speranza. Così il vissuto di Irina, come lasciato sgorgare in diretta da lei stessa, in una confessione aperta eppure misurata, in cui razionalità ed emozionalità mantengono un equilibrio quasi magico, finisce scandagliato attraverso le sue lettere inviate a parenti, amici, giudici, funzionari di polizia: in un alternarsi anche temporale di ricordi del passato, intimi, antichi e anche dolci, e di riflessioni sul presente, aspre e anche arrabbiate, che non vogliono ammettere la resa e chiedono testardamente alle autorità che conducono le indagini di spiegare l'inspiegabile che è accaduto
Sono pagine dure, che lasciano il segno: per contenuto e forma. E spesso commuovono: tanto più perché si capisce che l'intenzione non è quella di stimolare la lacrima facile.
Non si può non notare un termine, amaro e dolente, che ricorre più volte, con un'insistenza quasi ossessiva: quello dell''assenza'. La morte delle gemelle è quasi certa, ma c'è quel 'quasi', appunto, prodotto dai corpi mai ritrovati. Parrebbe impossibile farci i conti, se si vuole restare vivi e non soccombere alla disperazione. Eppure, proprio le ultime parole del libro confermano la volontà, già emersa nel racconto, di non rinunciare mai a un varco: «Ora però facciamo due passi, che ne dici? Andiamo a vedere, perché mi sa che fuori è primavera.»
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Mi sono sentita tanto in colpa di essere di nuovo felice, nonna. Era come se tutti mi dicessero: come puoi dimenticare, come puoi lasciarti indietro quello che ti è successo, come puoi partire per una vacanza, bere un bicchiere di vino, amare un uomo, farti amare nel piacere, dormire dopo. Come puoi essere ancora viva, insomma, e aver voglia di stare ancora nel mondo. Hai dimenticato le bambine? Vergognati. È come se mi dicessero che sono morta anche io, ed è uno scandalo che mi ribelli.
Ma io sono viva nonna, il dolore da solo non uccide e io sono viva. Dunque devo vivere, perché finché ci sono ci sarà il ricordo di chi non è più con noi. Vivo, il ricordo: vive loro nei pensieri. Dimenticare, nonna. Tu che hai camminato per un secolo lo sai che niente si dimentica ma tutto, a momenti, si deve poter prendere e mettere in un posto. Tenerlo in mano e metterlo in tasca, spostarlo sul comodino come fosse un fiore in un vaso, uscire, poi rientrare e ritrovarlo lì. Come potremmo vivere senza placare la memoria, che non vuol dire arrendersi, o dimenticare, ma lasciare che il caldo si raffreddi, che il bagnato si asciughi, che ogni cosa si trasformi e nasca un inizio da ogni fine. Che la fame si sazi per tornare a essere fame. Che il desiderio si estingua per rinascere. Che il sonno dia pace alla stanchezza per avere sonno di nuovo. Ogni minuto della vita gira attorno a qualcosa che non c’è più perché qualcos’altro possa accadere. Guarda. I bambini smettono di piangere l’assenza della mamma, all’asilo, e le corrono incontro ridendo quando torna. L’hanno dimenticata, in quelle ore? Ti amputano una gamba dopo un incidente, come è successo a papà, e con la protesi riprendi a camminare e persino a guidare la moto. Hai dimenticato la tua gamba oppure è proprio perché la ricordi – e insieme ne sopporti l’assenza – che puoi ancora muoverti nel mondo? C’è bisogno di essere felici, nonna, per tenere testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di paura per avere coraggio. È l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suo potere. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
Dovresti portare il lutto in eterno, dicono senza dire: che vergogna dimenticare le proprie figlie. Ma tu inclini la testa e sorridi con i denti piccoli: non sanno di cosa parlano, dici. Dimenticare è impossibile, ma vivere si deve perché la natura ha deciso così: il dolore da solo non uccide. L’assenza di un amore si ripara con altro amore. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
Sono una madre, lo sarò sempre. Senza figli ma madre. Non servono figli per essere madri. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
«
Mi sono sentita tanto in colpa di essere di nuovo felice, nonna. Era come se tutti mi dicessero: come puoi dimenticare, come puoi lasciarti indietro quello che ti è successo, come puoi partire per una vacanza, bere un bicchiere di vino, amare un uomo, farti amare nel piacere, dormire dopo. Come puoi essere ancora viva, insomma, e aver voglia di stare ancora nel mondo. Hai dimenticato le bambine? Vergognati. È come se mi dicessero che sono morta anche io, ed è uno scandalo che mi ribelli.
Ma io sono viva nonna, il dolore da solo non uccide e io sono viva. Dunque devo vivere, perché finché ci sono ci sarà il ricordo di chi non è più con noi. Vivo, il ricordo: vive loro nei pensieri. Dimenticare, nonna. Tu che hai camminato per un secolo lo sai che niente si dimentica ma tutto, a momenti, si deve poter prendere e mettere in un posto. Tenerlo in mano e metterlo in tasca, spostarlo sul comodino come fosse un fiore in un vaso, uscire, poi rientrare e ritrovarlo lì. Come potremmo vivere senza placare la memoria, che non vuol dire arrendersi, o dimenticare, ma lasciare che il caldo si raffreddi, che il bagnato si asciughi, che ogni cosa si trasformi e nasca un inizio da ogni fine. Che la fame si sazi per tornare a essere fame. Che il desiderio si estingua per rinascere. Che il sonno dia pace alla stanchezza per avere sonno di nuovo. Ogni minuto della vita gira attorno a qualcosa che non c’è più perché qualcos’altro possa accadere. Guarda. I bambini smettono di piangere l’assenza della mamma, all’asilo, e le corrono incontro ridendo quando torna. L’hanno dimenticata, in quelle ore? Ti amputano una gamba dopo un incidente, come è successo a papà, e con la protesi riprendi a camminare e persino a guidare la moto. Hai dimenticato la tua gamba oppure è proprio perché la ricordi – e insieme ne sopporti l’assenza – che puoi ancora muoverti nel mondo? C’è bisogno di essere felici, nonna, per tenere testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di paura per avere coraggio. È l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suo potere. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
Dovresti portare il lutto in eterno, dicono senza dire: che vergogna dimenticare le proprie figlie. Ma tu inclini la testa e sorridi con i denti piccoli: non sanno di cosa parlano, dici. Dimenticare è impossibile, ma vivere si deve perché la natura ha deciso così: il dolore da solo non uccide. L’assenza di un amore si ripara con altro amore. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
Sono una madre, lo sarò sempre. Senza figli ma madre. Non servono figli per essere madri. (Concita De Gregorio, "Mi sa che fuori è primavera", Feltrinelli, 2015)
»
In Mixtura i contributi di Concita De Gregorio qui
In Mixtura ark #LibriPiaciuti qui
Nessun commento:
Posta un commento