C’è un senso di tradimento alla base del manifesto contro la “sharing economy” steso dal tecnologo Tom Slee nel volume ‘What’s Yours is Mine’ (OR Books, pp. 214).
Una dettagliata, minuziosa operazione di critica ideologica che mostra tutta la distanza tra i proclami di colossi come Uber e Airbnb e la realtà dei fatti. Il loro mondo, argomenta Slee, prometteva di rappresentare un’alternativa sostenibile agli eccessi del capitalismo contemporaneo. Appropriandosi di parole d’ordine molto nobili - “apertura”, “connessione”, “partecipazione”, meno gerarchie e più rispetto dell’ambiente - l’obiettivo dichiarato era dire: “ciò che è mio è tuo”. E invece «in pochi anni» si è scoperto che lo slogan, al netto della propaganda, è già diventato: «ciò che è tuo è mio». Perché «quello che era nato come un appello al senso di comunità, alle interazioni tra persone,
a sostenibilità e condivisione», scrive Slee, «è diventato il campo da gioco di miliardari,
di Wall Street, di venture capitalist che spingono le loro convinzioni sul libero mercato sempre più a fondo nelle nostre vite personali».
Insomma, l’atto d’accusa
è chiaro: se proprio si deve parlare della sharing economy come di un “movimento”, allora è una forza che preme per realizzare «una forma di capitalismo anche più rigida», fatta di deregulation, nuove forme di consumismo e di precariato.
Per convincersene basta considerare l’utopia del Ceo di Airbnb, Brian Chesky: «Costruire una città condivisa, in cui le persone sono micro-imprenditori» e «lo spazio non viene sprecato, ma condiviso con gli altri». “Condivisa”
deve essere perfino l’identità, ricorda Slee citando un altro dirigente dell’azienda, Douglas Atkin. E non sorprende, visto che a comporla sono i sistemi di valutazione reputazionale usati da tutta la sharing economy.
Poco importa che la letteratura scientifica concordi nel ritenere le persone irriducibili a somme di giudizi tra una e cinque stelle:
è la scusa, scrive Slee, per sostenere che le tecnologie della condivisione di ogni cosa - dal divano di casa alla propria vettura - sono davvero il modo per ristabilire “fiducia” reciproca. E invece, si legge,
il risultato è una società della sorveglianza costante, dove sempre più lavori dotati di precise tutele e diritti vengono sostituiti con una forma endemica di precariato
in cui «chiunque può essere pubblicamente ricoperto di vergogna in qualunque momento e, nel caso delle piattaforme di sharing economy, punito».
Ma la menzogna è utile. Serve
ad avanzare l’idea che non ci sia bisogno di regole a livello cittadino o statale per mettere al riparo le nostre città e le nostre vite dagli effetti indesiderati della condivisione: saranno gli utenti a farsi la guardia l’un l’altro.
Quanto agli effetti aggregati, sarà una smithiana “mano invisibile” a distribuire finalmente in modo ottimale - grazie a Internet - prestiti personali (Lending Club), pulizie domestiche (Homejoy), passaggi (Lyft) o affitti. Dove non basta l’ideologia arrivano
i lobbisti. Ma a rimetterci
è la democrazia: «La sharing economy», attacca Slee, «è diventata un’opportunità per portare il potere decisionale
al di fuori della portata degli organi elettivi». Opporsi, dunque, non è nostalgia
di un passato pre-tecnologico. Significa piuttosto rinnegare una visione del mondo in cui «le persone sono aziende»,
l’io un «brand personale»
e «lo stile di vita un servizio».
Privatizzare ogni forma
di condivisione, sembra suggerire Slee, ci priva di un altro brandello di umanità, proprio - e qui sta la seduzione, il pericolo - mentre ci promette l’esatto contrario.
*** Fabio CHIUSI, giornalista, L'atto d'accusa contro la sharing economy: le persone non sono aziende, 'L'Espresso', 9 marzo 2016, qui
Nessun commento:
Posta un commento