Melita CAVALLO, "Si fa presto a dire famiglia", Laterza, 2016
pagine 136, € 15,00, ebook € 9,49
Amaro e delizioso: un libro indispensabile, aperto alla speranza
Un libro delizioso e amaro insieme: quindici storie, in tema di famiglie e bambini, che valgono più di qualunque saggio.
Con una scrittura piana, semplice, invitante, che sa pennellare con colori vividi e intensa empatia alcuni casi amari e drammatici che le sono capitati nella sua vita di giudice minorile, Melita Cavallo rende un servizio prezioso anche al termine della sua quarantennale attività professionale, scrivendo pagine che meriterebbero di essere lette e meditate da ogni coppia genitoriale, 'naturale' o 'arcobaleno' che sia.
Sono squarci di realtà che dicono meglio del miglior trattato sociologico i nodi che troppo spesso ancora stringono insieme, padri, madri e figli in una morsa di legami soffocanti e perversi, da cui l'amore, se mai c'è stato, è fuggito, lasciando il posto al conflitto distruttivo, alla voglia di possesso, all'uso strumentale dell'altro e alla pulsione proprietaria del bambino, in particolare.
Melita Cavallo si rivela scrittrice abile e sottile.
Sa riversare nei racconti tutta la sua sensibilità umana e la competenza psicologica, oltre che giuridica, che evidentemente le è stata indispensabile nel ruolo di magistrato per dipanare le situazioni più intricate.
Dimostra, con l'efficacia degli esempi chiari e concreti, che la legge serve se è al servizio degli uomini (e non il contrario) e che l'interesse e il bene del bambino devono sempre prevalere sui giochi, le rivalità e le guerre degli adulti.
E riesce a confortarci quando ci fa vedere, con la forza dei fatti, che quando questo avviene, l'intervento del giudice, aiutato da figure concorrenti di taglio più psicosociale, può in qualche modo riuscire a riparare i danni prodotti dagli adulti sui piccoli: danni magari anche involontari, perché semplicemente derivanti dai processi di convivenza di per sé difficoltosi in cui tutti siamo immersi, ma che non per questo sono meno 'colposi' e possono segnare e piegare per sempre la vita dei più piccoli.
E' qui che la narrazione scioglie l'amaro di tante realtà descritte: si apre a momenti di commovente speranza, facendoci intravvedere la possibilità realistica di qualche uscita positiva, oppure riesce a dar conto di come, a distanza di anni, per le informazioni poi raccolte, le ferite di 'quel' bambino, grazie alle decisioni equilibrate anche di un tribunale dei minori, siano state in qualche modo rimarginate e l'adulto che è diventato abbia trovato finalmente gli sbocchi di benessere psicologico che tutti meriteremmo.
Viviamo un tempo di confronto aspro, costruito su credenze inverificate e pregiudizi sommari: il dibattito sulla famiglia rischia il fondamentalismo delle crociate e sembra che ancora molti vogliano mettere le braghe ad una realtà che da anni è cambiata e ancora molto sta cambiando. Si può rimpiangere quanto si vuole la tradizione, magari dimenticando la violenza spesso nascosta sotto di essa, ma se è doveroso intervenire sulla realtà, per regolarne il corso e non lasciare che tutto avvenga come vuole avvenire, la lettura di questo libro è di aiuto fondamentale. Imprescindibile, direi: perché ci ricorda che i fatti, e non 'ciò che a noi piacerebbe fosse', non parlano più già da anni di 'famiglia' (singolare), bensì di 'famiglie' (plurale) e che l'interesse e il benessere dei bambini, non importa di quale famiglia siano parte, devono essere al primo posto e guidare l'operato degli adulti: genitori, istituzioni, legislatori.
Qualche volta, invece, al primo posto pare esserci, oltre che l'incapacità di capire e smontare i preconcetti, la nostra comoda ipocrisia, tutta 'ideologica': quella che ci fa proclamare a tutte maiuscole e in pubblico ciò che, nel privato, quando davvero siamo 'toccati' dai problemi e dovremmo mostrare coerenza, ci guardiamo bene dal praticare.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
Il nostro ufficio, osservatorio privilegiato del malessere infantile e giovanile, registra sempre più frequentemente casi in cui il malessere dell’infanzia ha origine nell’anaffettività della madre e nella sua indifferenza ai bisogni dei figli. Molte donne mettono in secondo piano i propri bambini, a favore della propria libertà e dell’inseguimento delle proprie ambizioni, e questo è vero a tutti i livelli sociali. Anzi, oserei dire che questa ignoranza dei sentimenti d’amore e delle emozioni ad essi connesse, causa di sofferenza nell’infanzia e successivamente nell’adolescenza, è più diffusa nelle famiglie di buon livello sociale perché in esse sono maggiori le occasioni che chiamano altrove la madre e che possono creare il distacco emotivo. (Melita Cavallo, "Si fa presto a dire famiglia", Laterza, 2016)
Di bambini contesi tra padre e madre il giudice minorile ne incontra e ascolta moltissimi. Mi si affollano alla mente tanti ricordi di ragazzi esposti per anni al conflitto tra i genitori, costretti ad assistere alla violenza che entrambi esprimono l’uno contro l’altro, incuranti degli occhi che li guardano e li giudicano. Bambini costretti a schierarsi, a barcamenarsi, sballottolati e trascinati di qua e di là tra la casa paterna e quella materna.
Questi bambini impotenti e soccombenti, costretti ad assorbire violenza, utilizzati dall’uno e dall’altro genitore per scambiarsi informazioni e messaggi criptati, maldicenze e menzogne, inconsapevoli o incuranti di esporre i loro figli ad un rischio psico-patologico altissimo, sono tutti bambini sofferenti che, divenuti preadolescenti, rischiano di diventare aggressivi e violenti verso quei genitori, interessati a riportare la vittoria nel conflitto piuttosto che la vittoria nel percorso di crescita dei figli. Questi bambini e questi ragazzi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, appartengono molto spesso a famiglie di livello sociale medio-alto. Frequentemente è la famiglia materna quella di livello più alto che cerca di tenersi il bambino ed emarginare il padre non ritenuto all’altezza del ruolo di principe consorte, sperando che prima o poi lui receda dalla lotta legale grazie alla propria difesa, affidata naturalmente ad un principe del foro. Quando viceversa i genitori sono dello stesso livello sociale medio-alto, la lotta si gioca all’ultimo sangue, dura per molti anni e alla fine ha un costo notevole, non solo psicologico per i figli, ma anche economico per i genitori, ragion per cui può essere sostenuta soltanto da coloro che hanno un reddito consistente. Infine, le persone più modeste e quei genitori che si avvalgono del patrocinio gratuito più facilmente pervengono ad un accordo in tempi ragionevolmente brevi. (Melita Cavallo, "Si fa presto a dire famiglia", Laterza, 2016)
Queste storie ci insegnano che non cambia per un bambino la qualità dell’accudimento, e conseguentemente la sua sana crescita psico-fisica e la sua identità sociale, per il fatto che chi gli fa da mamma è una donna che mamma non è perché è la zia, o sono due nonne o due prozie, e neppure se sono persone dello stesso sesso, femminile o maschile che sia. Quel che accomuna le storie di Luca, Silvia e Ivan è la responsabilità educativa delle donne che di loro si sono prese cura: tutte, indistintamente, hanno sin da subito raccontato la verità ai “figli” sulla loro origine; poco importava per Luca, Silvia e Ivan conoscere come erano nati, valutare quale nascita poteva considerarsi “normale” e quale invece “diversa”; rilevante è stato per loro sapere “chi erano oggi” e “quale sarebbe stato il loro futuro”.
È, dunque, chiaro che bisogna assumersi la responsabilità di dire al bambino fin dall’inizio la verità sulla sua origine, provando a spiegargli come il grande desiderio di avere un figlio e di potersi dedicare a lui ha spinto la mamma e la sua compagna, come nel caso di Luca, a cercare aiuto ad un centro specializzato per poter realizzare il loro sogno. Luca era un bambino sereno che riconosceva la differenza fra i sessi – maschio e femmina – al di fuori del contesto familiare, nell’ambito della rete allargata dei parenti, fra gli amici, nella società.
Non tutela di per sé il percorso di crescita di un bambino il confrontarsi fra le mura domestiche con una mamma e un papà: Ivan, di soli otto anni, aveva con acume constatato la differenza tra il suo contesto – composto da zia Wanda e zia Agata – e quello, estremamente conflittuale, dell’amichetto Riccardo, che vedeva spesso piangere in classe e il cui benessere futuro, questo sì, probabilmente sarebbe stato compromesso.
Non è compito del buon genitore imporre al figlio, per tutelarlo in un presunto sereno percorso di crescita, una cecità socio-relazionale entro rigidi schemi imposti dalla mentalità vigente, dalla società omofoba e da quello che “la natura” impone; i bambini hanno una propria infallibile “testa” e sono in grado, sin dalle primissime fasi evolutive, di formarsi schemi mentali propri che – come è successo a Luca, a Silvia, e anche al piccolo Ivan – consentono loro di dare una spiegazione logica alle situazioni contingenti e, persino, scegliere quelle più consone alle loro esigenze.
Luca, Silvia e Ivan, come molti altri bambini che ho seguito e affidato, erano tre bambini sani, sereni, allegri, che hanno potuto godere di un percorso di crescita “comune” fatto di momenti di gioia e di altrettante difficoltà, come, questo sì, è “normale” possa accadere. (Melita Cavallo, "Si fa presto a dire famiglia", Laterza, 2016)
»
Nessun commento:
Posta un commento