Dalla fine del ‘700 ad oggi i progressi dell’umanità sono stati straordinari e il motore di questo grande balzo che ci ha portato da una società di affamati alla società di oggi, è stato il capitalismo.
Un motore potentissimo che però, come tutti i motori, inquina: stiamo infatti accumulando gas serra e, oggi, il pianeta è seriamente minacciato; il livello di gas nell’aria ha superato le 400 parti per milione (ppm), continua ad accumularsi a ritmo crescente e l’IPCC (1) ha stimato che, in assenza di misure drastiche di contenimento, vi sia una probabilità elevata di un aumento deciso delle temperature per fine secolo. In questo caso, gli impatti sul pianeta e sulla vita sarebbero terribili: eventi meteorologici estremi, collasso dei sistemi alimentari, malattie, scomparsa di ecosistemi, scioglimento dei ghiacci, innalzamento dei mari e affondamento di città costiere o, addirittura, di intere isole, migrazioni massicce e guerre tra disperati alla ricerca di cibo e acqua.
Siamo quindi giunti alla fine di questo straordinario percorso?
Già gli economisti classici, nel 1800, basandosi sulle teorie della popolazione malthusiana e dei rendimenti decrescenti, avevano preconizzato la fine del capitalismo; non parlavano di inquinamento bensì di limitatezza delle risorse, ma penso che le analogie siano forti ed evidenti.
Più di recente, nel 1972, il club di Roma, sulla base di un modello matematico sviluppato dal MIT, preconizzava il collasso del sistema per esaurimento delle risorse e superamento dei livelli tollerabili di inquinamento; previsioni che sono state oggetto di dibattiti e critiche.
Oggi, comunque, la convinzione che il sistema, in queste condizioni, non possa durare molto, è forte e diffusa.
Di fronte a questa prospettiva gli ottimisti confidano che le nuove tecnologie, sotto la guida del mercato, risolveranno il problema dell’effetto serra e riporteranno l’economia alla crescita mentre i pessimisti prevedono che il treno, ormai lanciato, porterà fatalmente al disastro planetario; altri ancora sostengono l’idea di una crescita zero se non, addirittura, di una “decrescita felice”. Sfortunatamente, l’idea della crescita zero, non è molto facile da concepire in un contesto capitalistico liberale e democratico. L’economia capitalista poggia su basi instabili e ha andamenti oscillatori e una crescita zero pare illusoria: l’economia, venendo a mancare la spinta dello sviluppo, imboccherebbe quasi fatalmente la decrescita e questa difficilmente sarebbe “felice”: la recessione genera spirali di crescente miseria e feroci conflitti sociali. Infatti, mentre la crescita porta con sé il felice problema di come suddividere i guadagni, la decrescita porta con sé un problema del tutto diverso: come suddividere le perdite; un problema nel quale i conflitti si inaspriscono creando le basi per ulteriori decrescite: una spirale maligna! Una decrescita, insomma, tutt’altro che felice.
Oggi però si stanno facendo strada altre visioni che paiono molto interessanti.
In particolare Carlota Perez e Dimitri Zenghelis, nell’ambito dell’antologia Ripensare il Capitalismo di M. Mazzucato e M. Jacobs, aprono spiragli che permettono di uscire dall’alternativa tra “andiamo avanti (e vada come vada)” e “fermiamo tutto (e vada come vada)”.
Zenghelis e Perez non s’iscrivono alla cosiddetta “economia ortodossa” (2).
Vediamo allora, prima di illustrare la loro visione, cosa l’economia cosiddetta “ortodossa” ha da dire in proposito.
Cosa dice la scienza economica “ortodossa” in merito all’inquinamento.
Il liberismo si basa sul calcolo economico agito dai singoli operatori in concorrenza, nella convinzione che le microdecisioni degli operatori, interagendo con il mercato e il sistema dei prezzi, portino al raggiungimento dell’ottimo per l’intera società; questo, però, a condizione che il calcolo dei singoli operatori sia corretto.
Nel caso dell’inquinamento però, secondo i neoclassici (3), il calcolo è distorto: vi sono costi che l’operatore non sostiene in quanto esterni; essi non entrano quindi nel suo calcolo che risulta così falsato. Si determina, allora, un vantaggio scorretto (in pratica un incentivo) per gli operatori inquinanti; gli equilibri risulteranno pertanto distorti e il sistema non sarà in grado di raggiungere lo stato ottimale per la società.
È quindi necessario che lo stato intervenga assegnando un prezzo alle emissioni inquinanti in modo da ristabilire la correttezza del meccanismo. Le tasse Pigouviane (4), alla cui categoria appartiene la carbon tax, hanno questo preciso scopo.
Si tratta di una modalità concettualmente semplice, trasparente e non discriminato-ria, di grande utilità per contenere le emissioni nocive ma, purtroppo, insufficiente per tre ragioni:
1. Misurare il costo per la collettività e fissare correttamente l’aliquota per riportare i costi aziendali al rispetto degli equilibri concorrenziali, è operazione complessa e basata su stime, il che espone i governi alla pressione degli operatori, che posso-no far valere argomentazioni potenti come, per esempio, la difesa dei posti di la-voro; le carbon tax oggi esistenti in molti paesi, secondo molti osservatori, presentano aliquote incomparabilmente basse rispetto al costo generato effettiva-mente per la collettività; insufficienti, quindi, a riportare la situazione all’equilibrio concorrenziale.
2. Il contesto è globale ma le tasse sono nazionali e questo:
(a) Stimola la cosiddetta politica del “vai avanti tu”: si attende cioè che altri agiscano, in modo da godere dei benefici del minore inquinamento senza pagarne il prezzo. Risultato: semiparalisi da NIMBY.
(b) Stimola le aziende inquinanti a delocalizzarsi, con il rischio che le stesse, dislocate in paesi meno attenti ai problemi ecologici, finiscano addirittura per inquinare complessivamente di più.
Sarebbe quindi necessario un accordo per un’eguale tassazione mondiale, ma le difficoltà che si incontrano su questa strada sono sotto gli occhi di tutti.
3. Le tasse Pigouviane possono funzionare per ritoccare gli squilibri del sistema. Il problema qui, però, è nella radice: oggi l’intero sistema economico mondiale è basato su energie a emissione di carbonio; se quindi, in teoria, il carbonio è sostituibile, in pratica è talmente integrato nelle strutture fisiche fondamentali della società da rendere le pur utili politiche Pigouviane, fatalmente marginali.
La path dependance
La speranza poi, manifestata dai liberisti ottimisti, che l’innovazione stimolata dal mercato possa risolvere il problema da sé, non tiene conto della path dependance e cioè del fatto che le innovazioni gemmano su rami già esistenti. Non ci si può attendere dal mercato un deciso cambio di direzione perché i circoli di feedback autorin-forzanti presenti nel sistema rendono improbabile che l’innovazione possa generare svolte radicali.
L’interazione con le infrastrutture e le idee già esistenti stabilisce il percorso dei cambiamenti futuri e l’innovazione guidata dal mercato può generare velocizzazioni o efficientamenti ma difficilmente può uscire dalle traiettorie già tracciate. Un esempio, piccolo ma lampante, è la tastiera QWERTY che, nata come ingegnoso artificio per evitare l’inceppamento nelle macchine per scrivere meccaniche, è tuttora utilizzata nei sistemi di videoscrittura elettronica che di tale artificio non avrebbero alcun biso-gno: si tratta, evidentemente, della path dependance in azione!
Ma vediamo un altro chiaro esempio di circuito autorinforzante. Prima domanda: perché in Olanda ci sono così tante piste ciclabili? Risposta: perché tutti vanno in bicicletta! Seconda domanda: perché in Olanda tutti vanno in bicicletta? Risposta: perché ci sono tante piste ciclabili! Siamo in presenza di circolarità molto simili alle mani che si disegnano di Escher!
Sono piccoli esempi per illustrare un concetto fondamentale: un sistema economico in funzione è una ricca trama di circoli di feed back autorinforzanti che ostacolano il cambiamento e lo rendono molto costoso nelle fasi iniziali; c’è però anche una buona notizia: una volta che una realtà si afferma, si creano nuove trame circolari che accelerano, stabilizzano e potenziano il nuovo percorso evolutivo.
Per questa ragione è difficile prevedere gli effetti di una svolta di sistema attraverso i modelli econometrici; essendo basati su equazioni lineari tendono a sottostimare l’impatto, non lineare, dei meccanismi di feedback e di fertilizzazione incrociata che le innovazioni producono nel medio – lungo termine.
Meglio allora, anziché affidarci a modelli econometrici, provare a inquadrare il possibile cambiamento in un quadro storico, meno tecnico - matematico, ma di più ampio respiro.
Uno sguardo panoramico sulle rivoluzioni tecnologiche
Gli economisti evoluzionisti, basandosi sulle teorie di J.A. Schumpeter e N.D. Kondrat’ev (5), sostengono che lo sviluppo, dai tempi della rivoluzione industriale ad oggi, non ha seguito una linea continua ma è passato per una pluralità di cambiamenti tecnologici radicali accompagnati da sviluppi impetuosi e da profonde crisi.
In proposito sono state individuate, a partire da fine settecento, cinque rivoluzioni che riporto nella tabella che segue:
I cicli Kondrat’ev sono caratterizzati da 3 fasi:
1. Installazione. In questa fase, accanto alle tecnologie ormai mature, irrompe una nuova tecnologia. È il periodo turbolento della “distruzione creativa” descritta da Schumpeter. I visionari della nuova tecnologia combattono con le vecchie aziende affermate, qualche visionario (troppo avanti) fallisce ma, poco per volta, la nuova tecnologia si afferma mentre inizia il declino per le vecchie aziende dominanti. Si creano tensioni sul mercato del lavoro (nuove competenze compaiono, altre spariscono); alcune regioni fioriscono e altre si impoveriscono (7). Si determinano forti diseguaglianze nella distribuzione dei redditi. È un periodo di concorrenza feroce. In questa fase, dal punto di vista degli indirizzi politici, tende a prevalere il laissez faire (8). Le vittorie della nuova tecnologia creano un contesto di fiducia negli investitori: aumenta la propensione al rischio. La finanza sostiene la nuova tecnologi-a: i successi sono forti, i guadagni diventano facili e si giunge, così, alla fase due ….
2. Crisi. I successi della finanza portano a un disaccoppiamento tra economia reale e finanza. La finanza, sempre più speculativa comincia a scommettere su sé stessa e le scommesse vincenti generano nuove scommesse. Si crea, insomma, una bolla finanziaria che non ha più alcuna base reale e che, a un certo punto, fatalmente, scoppia. È la crisi. Un grande crack e poi, il panico. Il crack mette a nudo i meccanismi del “casinò finanziario” e le disparità di reddito che ad esso si ac-compagnano. Cadono gli investimenti e cade l’occupazione.
3. Dispiegamento (deployment). Dopo la crisi la ripartenza è difficile: gli investitori privati, bruciati dall’esperienza della bolla finanziaria, sono avversi al rischio. C’è incertezza. Solitamente l’avvio di questa fase è spinta (o trainata) dallo Stato e l’economia, più o meno velocemente, si riavvia. È un’economia diversa, basata sulle nuove tecnologie ormai installate e affermate, e si sviluppa in maniera più armonica, rispetto alla fase 1, pervadendo tutti i settori. Si attenuano le disparità nella distribuzione del reddito. Si creano nuovi circoli virtuosi auto rinforzanti e fertilizzazioni incrociate che generano ricadute positive su tutti i settori. Cambiano i paradigmi sociali e si affacciano nuovi modelli di consumo coerenti con il nuovo sistema.
Stante questo modello, noi ci troviamo in una fase due (mi auguro, verso la fine): dietro l’angolo ci attende la fase tre: quella del dispiegamento.
Ma ….
Quale fase 3 ci possiamo attendere?
Una prima notazione: se guardiamo ai cicli descritti sopra, i periodi di crisi nel tempo tendono ad allungarsi. Quali sono le ragioni? Possono essere tante; ne azzardo una che mi pare evidente: siamo in presenza di mondi via via più interrelati, con tecnologie sempre più complesse e con anelli di retroazione sempre più forti, più intrecciati e più pervasivi.
L’innovazione dei canali per sfruttare l’energia idrica nel ‘700, pur geniale, presentava un livello di complessità (e potenzialità) assai inferiore a una macchina a vapore e incomparabilmente inferiore rispetto al computer.
Anche sul fronte della versatilità siamo di fronte a differenze incommensurabili. Il computer è una macchina versatile: posso usarla per un numero incalcolabile di finalità; non così le macchine a vapore o le reti di canali.
Infine, le sinergie. Tecnologie complesse e versatili possono interagire e produrre sinergie, basate su anelli di retroazione sempre più potenti, intrecciati e diffusi; più difficili da smontare e da avviare, ma molto potenti una volta in funzione.
Per dare un’idea approssimativa, semplificata e senza pretesa di rigore, degli intrecci e, quindi, dei livelli di sinergia potenziale propri dei nostri tempi, propongo questo schema:
Di fronte a tali complessità e potenzialità, in questa fase, lo Stato non può non far nulla: il sistema impiegherebbe molto tempo a trovare una sua strada. E non può nemmeno limitarsi a spingere l’avvio del dispiegamento per poi lasciar fare alle forze di mercato di dar forma allo sviluppo: deve “trainare” il sistema operando con progettualità; il suo intervento “mission oriented” deve tracciare il percorso perché il sistema di forze sopra descritto è potente, ma manca di direzione. Già la crisi del 1929 aveva ben messo in luce questo aspetto; basti pensare alle tre diverse evoluzioni che si sono create nei fatti: lo stalinismo, il nazismo e lo sviluppo delle democrazie occidentali (grazie all’opera di guida illuminata esercitata da Roosevelt, Keynes e Beveridge). Una soluzione qualsivoglia, visti i problemi sul tappeto, non è auspicabile per nessuno.
Queste forze potenziali, pronte per entrare in azione, attendono una direzione che non è predeterminata (9), ma che è però facilmente individuabile: dal momento che il pianeta è minacciato, la mission capace di mobilitare le potenzialità e indirizzarne il dispiegamento non può che essere la crescita verde: una linea d’azione volta a modificare le modalità di produzione e gli stili di consumo e a facilitare lo sviluppo di sinergie capaci di creare e valorizzare nuovi circoli di retroazione autorinforzanti.
“La direzione verde non rappresenta una scelta (trade off) tra sostenibilità e crescita: al contrario, trasforma la crisi ambientale da problema economico in opportunità economica” (10).
Le premesse ci sono: la rivoluzione informatica può facilitare innovazioni sostenibili per ridurre i consumi di materiali e di energia e, al contempo, stimolare la crescita; digitalizzazione e transizione energetica rappresentano un connubio molto promettente per salvare il pianeta senza rinunciare allo sviluppo.
La crescita verde
La crescita verde nel quadro proposto da Carlota Perez, è un concetto ampio che non si limita allo sforzo per la produzione di energie rinnovabili e prodotti sostenibili. Il suo focus è sulle sinergie. Il sistema, guidato dalla mission verde e connesso strettamente alla rivoluzione digitale, opera in modo globale, producendo nuovi stimoli per investimenti via via più redditizi che innovino le modalità produttive, generando importanti cambiamenti anche negli stili di vita e di consumo a livello planetario.
Riporto nella tabella che segue alcuni esempi di come il nuovo sistema potrà differenziarsi da quello che stiamo per lasciarci alle spalle.
Il sistema complessivo è descritto in questo grafico (adattato dal testo della Perez):
Qualche considerazione finale
Solo una visione progettuale del futuro, sostenuta da politiche rigorose, credibili e continuate nel tempo può reindirizzare lo sviluppo e farlo uscire dalle strette della path dependance e dei circoli di autorinforzo viziosi.
Certo, all’inizio è prevedibile che le scelte saranno costose ma, via via che si creeranno circoli di feedback virtuoso, lo sviluppo potrebbe riprendere e con grande vigore e in tempi contenuti.
Per esempio, le politiche di incentivo adottate negli anni novanta, in Germania e in altri paesi, per stimolare il fotovoltaico, furono all’inizio molto onerose; però mentre la domanda cresceva e la produzione si allargava, si sviluppavano nuovi progressi tecnologici, i prezzi diminuivano e la spesa dello stato per gli incentivi si riduceva: dal 2009 al 2015 il prezzo dei pannelli si è ridotto del 90% e in molte parti del mondo (perfino nel nord Europa) l’energia solare compete ormai con l’energia di origine fossile. I costosi incentivi sono diminuiti di molto e si ritiene che a breve non saranno più necessari.
Stesse dinamiche paiono funzionare nel settore delle batterie per immagazzinare l’energia.
Inoltre secondo alcuni studi (11) l’energia pulita, una volta avviata, potrebbe risultare più produttiva rispetto alle tecnologie fossili e le ricadute su altri settori potrebbero essere notevoli.
Certo, il quadro complessivo qui delineato ha tanti pregi: è credibile e attraente.
Però i cicli di Kondrat’ev, che descrivono così bene il nostro passato, non ci danno certezze assolute per il futuro. Se è sempre andata così, sembrano suggerire, è pro-babile che continui ad andare così, ed è più che probabile che l’attuale stato di crisi non sia un triste punto di arrivo ma, invece, un promettente punto di partenza.
Confesso che mi sentirei più rassicurato se le stesse cose le avesse dette un bel modello econometrico ma, come evidenzia Dimitri Zenghelis, ai modelli econometrici, che sono lineari e non possono valorizzare adeguatamente la complessità e la forza degli anelli di autorinforzamento, non si possono chiedere risposte su cambiamenti epocali di medio-lungo termine.
Nota, convincentemente, Carlota Perez che “sarebbe stato quasi impossibile, a metà degli anni trenta, immaginare che quei lavoratori sporchi, affamati e disoccupati in coda alle mense dei poveri, potessero aspirare, appena dieci anni più tardi, a una bella villetta in periferia piena di elettrodomestici e con un’automobile parcheggiata nel vialetto d’ingresso”.
Accontentiamoci, quindi, del macrodisegno che i cicli di Kondrat’ev e Schumpeter ci offrono.
È del resto indubbio che le potenzialità che si sono sviluppate in questi ultimi anni grazie alla digitalizzazione, hanno iniziato a creare un’infrastruttura probabilmente già pronta per il grande balzo in avanti: si attende solo il via! e un’indicazione di direzione che non può essere fornita dal mercato e nemmeno dalle ricette di rigore e di non interventismo dei neoliberisti.
Per concludere, direi che mi pare ci siano buone ragioni per dare credito a questo scenario; scenario nel quale anche l’Unione Europea pare nutrire fiducia: il progetto Next Generation EU si muove proprio in questa prospettiva e fa leva sull’accoppiata verde – digitale.
Restano i dubbi sulla capacità del purtroppo squinternato Stato italiano a svolgere, nel nostro ambito, quel ruolo di guida cui si fa appello. Ma le cose, mi sembra, si stiano muovendo; verso il meglio? Speriamo e attendiamo fiduciosi.
*** Ezio NARDINI, consulente, Capitalismo e ecologia, inedito, per 'Mixtura'
NOTE: (1) Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico: forum scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente. - (2) Che comprende gli economisti classici, i neoclassici e le recenti teorie neoliberiste; gli ortodossi accettano gli interventi dello stato nell’economia solo in alcuni casi specifici (i cosiddetti fallimenti di mercato) e alla condizione che siano neutrali: volti cioè solo a ristabilire le condizioni per l’equilibrio di mercato. - (3) In particolare A. Marshall e A.C. Pigou. - (4) Da A.C. Pigou, l’economista che le ha teorizzate. - (5) J.A. Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri 1964 e N.D. Kondrat’ev, I cicli economici maggiori, Cappelli 1981 - (6) Purtroppo, a completare le cose, con l’aggiunta del COVID che però, spero proprio, in un quadro di lungo termine risulterà irrilevante. - (7) Si pensi, di recente, alla bancarotta del comune di Detroit contemporanea all’ascesa di Silicon Valley, - (8) specie quando le innovazioni iniziano ad affermarsi portando ventate di ottimismo. - (9) Alla fine, il gioco di mercato, tra competizioni, successi e fallimenti, una strada la troverebbe comunque ma, a parte i tempi lenti di ripartenza e il consumo di risorse, potrebbe imboccare una strada non ottimale, nel solco della path dependance. - (10) Carlota Perez, op. cit. - (11) D. Acemoglu et al. “The environment and directed technical change”, American Economic review, 2012
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