Come probabilmente sanno molti di coloro ai quali devo riflessioni condivise nel tempo, non provo particolare affetto per la parola "empatia", perché fatico a credere a chi dice "so come ti senti", me stessa compresa. In fondo, non puoi saperlo davvero, perché semplicemente non sei me: non puoi indossare i miei panni e camminare nelle mie scarpe. Puoi provarci, certo, ma sarà sempre una sorta di esperimento.
Personalmente, colgo qualcosa di concessivo, nel concetto di empatia. Chi è, magari inconsapevolmente, in una posizione di privilegio o superiorità, sembra potersi "permettere" l'empatia oppure, per me ancora più discutibile, la tolleranza. O magari, al contrario, può non vedere dove stia il problema, sempre da una posizione più o meno esplicita di forza.
Ho la sensazione che l'idea di poter sapere cosa provano gli altri ci porti spesso a giudicare le cose dal nostro punto di vista senza renderci conto che è il *nostro* punto di vista. Ma non mi pare che in generale esistanto una sensibilità giusta e una sensibilità sbagliata a priori. Esistono piuttosto sensibilità differenti, e pensare di poter "empatizzare" con quelle altrui è per me un'idea quasi illusoria. In fondo, mi ritrovo spesso a interrogarmi, chi sono io per giudicare le sensibilità altrui e soprattutto per decidere se sono giuste o sbagliate?
In molte situazioni in cui o mi ritrovo a pensare di sapere che cosa provano gli altri, oppure al contrario non vedo proprio perché si stia discutendo di una determinata questione, preferisco tacere, invece che magari dare un'opinione che sento viziata dal mio essere me. Non mi piace nemmeno prendere in giro o minimizzare le rivendicazioni altrui, per le quali posso anche pensare di provare una qualche empatia, ma magari senza riuscire a sentire davvero simpatia perché, di fatto, non mi pungono sul vivo.
Tutto questo per dire che se non parlo di certi argomenti non è per disinteresse, ma è perché non mi sento titolata a parlarne.
*** Vera GHENO, sociolinguista, saggista, facebook, 14 giugno 2020, qui
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