E' finita come non poteva che finire: con una crisi non più solo politica, ma istituzionale.
La 'moral suasion', prassi da sempre praticata dal Capo dello Stato nell'esercizio del suo ruolo di garante della Costituzione, utilizzata stavolta per affermare il diritto/potere di nomina dei ministri da parte del Presidente della Repubblica (art. 92 della Costituzione), non ha funzionato.
Il 'tentativo persuasivo', da subito pubblicamente svelato e portato in piazza e sui social dai leader delle due forze politiche della coalizione che si apprestavano a formare il governo, violando così la condizione di riservatezza indispensabile per consentirne in generale la potenziale efficacia, è stato prima trasformato e poi brandito come un 'veto' insopportabile e antipopolare sul nome del ministro dell'Economia che si voleva proporre/imporre.
Il passo immediato successivo è stato il lancio di un 'diktat' sempre più arrembante e minaccioso, che ha incendiato la relazione istituzionale con il Presidente della Repubblica, gettandola in una via senza uscita: la candidatura di Paolo Savona a ministro dell'Economia è diventata una questione di principio, un simbolo di autonomia dei partiti in una 'repubblica parlamentare' (che non tollera limiti, neppure dal Capo dello Stato) e l'aut-aut, urlato fin dall'alto dei palazzi romani in forma di ossessivi 'videoselfie' inneggianti al popolo, è stato 'o Savona o salta tutto'.
Abbiamo assistito impotenti a una vera e propria resa dei conti al vertice delle istituzioni, mai propostasi nella storia della Repubblica: da una parte due leader di partito, Salvini & Di Maio (il primo in posizione di guida esagitata e nello stile arruffapopolo che gli è abituale; il secondo più recalcitrante, ma comunque in consonanza di intenti con l'alleato nel tempo sempre più scoperto 'sintonico'); dall'altra il capo dello Stato, Sergio Mattarella, deciso a difendere le prerogative del ruolo (e quindi la Costituzione, con i suoi diritti, doveri e contrappesi, e quindi le 'regole del gioco' fondamentali per la 'vita-insieme' di tutti noi cittadini).
Prima della drammatica decisione del Presidente della Repubblica, comunicata in diretta televisiva nella serata di ieri, 27 maggio 2018, erano questi (e da giorni peraltro) i due corni del dilemma, chiari e evidenti a tutti:
(1) - Se avesse 'vinto' Mattarella, sarebbe saltato il governo e si sarebbero aperte le prospettive del voto dopo oltre 80 giorni di consultazioni a quel punto rivelatisi inutili: l'intero 'contratto' faticosamente negoziato e sottoscritto dalla accoppiata M5S-Lega, con la relativa struttura di ministri già decisi e condivisi, sarebbe stato gettato al macero per l'unico rifiuto, ritenuto inaccettabile soprattutto da Salvini (ma anche da Di Maio), del nome di Paolo Savona come responsabile del ministero dell'Economia.
(2) - Se avessero 'vinto' Salvini & Di Maio, sarebbe 'partito' il governo. Ma sarebbe uscita sconfitta, con un precedente che avrebbe fatto storia, la funzione del Presidente della Repubblica (dunque non solo la persona di Sergio Mattarella), la quale si sarebbe vista distrutta per sempre il potere di 'dire la sua' nella nomina dei Ministri (art 92 della Costituzione).
Si argomentava: però avrebbe vinto il 'popolo sovrano'.
Ma si dimentica che l'art 1 della Costituzione afferma che la sovranità, che certamente "appartiene al popolo", viene tuttavia esercitata ('deve' essere esercitata) "nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione".
E poi: quali e quanti altri possibili ricatti ci si sarebbe potuti attendere da chi avesse vinto un braccio di ferro così platealmente innescato e con i riflettori, nazionali e internazionali, tutti puntati su chi ne sarebbe uscito vincitore e chi perdente?
Sappiamo come è andata.
Addirittura c'è chi parla oggi di messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica: per altro tradimento e/o attentato alla Costituzione.
E' vero: si è affermato un principio costituzionale. Doverosamente, a mio parere. Ma il prezzo è stato altissimo.
Anche perché la resa dei conti, come sempre accade quando non ci si sa fermare per tempo in scontri incandescenti di questa portata e condotti a questo livello istituzionale, non è finita.
Al di là del seguito che potranno avere le accuse formali mosse al Presidente della Repubblica (subito preannunciate da M5S e Fratelli d'Italia), il prossimo pieno di voti elettorali che otterrà, com'è facile prevedere, chi esce sconfitto da questo assurdo braccio di ferro potrebbe dare la spinta, nel nome di un populismo ancor più ringalluzzito, protervo e senza limiti, ad un assalto potenzialmente mortale alle istituzioni e alle regole costituzionali.
Se le istituzioni, i partititi e tutti noi cittadini non recupereremo consapevolezza della china verso cui stiamo andando e non freneremo la discesa, inserendo razionalità, freddezza e visione lunga nel processo politico che ormai sembra guidato da un pilota automatico fuori controllo, rischiamo di produrre vere drammatiche macerie di ciò che è l'indispensabile architettura fondamentale del nostro convivere.
Siamo a questo punto. E nessuno sa cosa potrà accadere.
Come sempre quando si scherza, incoscientemente o con strafottenza, con il fuoco, avendo vicino taniche di benzina.
Siamo a questo punto. E nessuno sa cosa potrà accadere.
Come sempre quando si scherza, incoscientemente o con strafottenza, con il fuoco, avendo vicino taniche di benzina.
*** Massimo Ferrario, Resa dei conti e crisi istituzionale, per Mixtura
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