martedì 29 novembre 2016

#SENZA_TAGLI / Fidel Castro, Roberto Saviano e noi (Claudio Fava)

Scrive su fbook Roberto Saviano: “Morto Fidel Castro, dittatore… Fu amato per i suoi ideali che mai realizzò, mai. Giustificò ogni violenza dicendo che la sanità gratuita e l'educazione a Cuba erano all'avanguardia, eppure, per realizzarsi, i cubani hanno sempre dovuto lasciare Cuba non potendo, molto spesso, far ritorno”.

L’epitaffio è un’arte facile: in due righe racconti vita, morte e peccati, senza appello. Come un giudizio universale: dentro o fuori. Io penso che la storia meriterebbe meno fretta, meno goliardia, soprattutto meno supponenza. Anche con Fidel Castro.

Conosco un po’ Cuba. Ho detto e scritto, anche da laggiù, che ogni giro di vite alle libertà di dire e di fare era un’umiliazione verso quel popolo e la sua rivoluzione. Ma conosco anche gli ospedali cubani, dove ci si andava a curare venendo dalle molte gloriose patrie del capitalismo latinoamericano in cui la salute è il diritto più improbabile, più funesto, più offeso (a meno che non lo paghi in contanti nelle cliniche private).

Conosco la fatica di crescere in un paese in cui sapere, comunicare, informarsi è stato un privilegio per pochi amati dal partito; ma conosco anche la faticosa dignità di un paese ridotto alla fame da mezzo secolo di embargo e di isolamento internazionale: altri avrebbero smantellato idee, convinzioni, rivoluzioni e le avrebbero portato in dono al fondo monetario internazionale accettando che venissero pagate a peso, come ferraglie. Cuba, no. Anche grazie a Fidel.

E sempre a proposito di America Latina e di Storia, non ho memoria di intellettuali italiani che si siano mossi con altrettanto zelo nei confronti di un presidente nordamericano (Nixon) quando il suo dipartimento di Stato organizzò, armò e poi tollerò il colpo di stato in Cile e le fucilazioni di massa nello Stadio Nacional. 
Non ho memoria di giudizi senza appello nei confronti dei governi europei, sempre così liberali, illuministi, volteriani, ma particolarmente distratti quando c’era da denunciare la decimazione fisica di una generazione di argentini negli anni della dittatura. Se leggete il libro di Enrico Calamai, console italiano a Buenos Aires durante il regime, scoprirete che le disposizioni dei governi (tutti, Italia in testa) pretendevano di mantenere rapporti amichevoli con quegli assassini e di tener chiuse le porte delle ambasciate per non dover dare ricovero a chi tentava di salvare la pelle.

Forse dovremmo chiarirci se esista davvero una sola definizione di libertà: la nostra. E se anche questa presunzione non sia una forma di comodo colonialismo culturale. Forse dovremmo imparare a camminare a piedi, e a lungo (come faceva Kapuschinski) nei luoghi che vogliamo raccontare (e amare, oppure odiare). Ma Kapuschinski, lui era un vero giornalista.

*** Claudio FAVA, giornalista, politico, 'facebook', 28 novembre 2016, qui



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