Nel 1969 Alain Touraine pubblicò La società postindustriale e nel 1973 La produzione della società; nel 1977 Francesco Alberoni pubblicò Movimento e istituzione. Questi tre libri di sociologia segnalarono tempestivamente e analizzarono approfonditamente il passaggio degli aggregati sociali dalla fase industriale (durata tra la metà del Settecento e la metà del Novecento) e la fase postindustriali, iniziata con la seconda Guerra mondiale.
Nell’era industriale gli aggregati sociali tendevano a strutturarsi come istituzioni, cioè sistemi rigidi, con un loro statuto fisso, un loro metodo fisso, un loro obiettivo fisso, un loro nemico e un loro alleato fissi. La forma tipica dell’istituzione è il partito, con le sue connotazioni estreme e onnivore raggiunte negli stati totalitari. Il sindacato, soprattutto quando funziona come cinghia di trasmissione di un partito, ne ripete la struttura e il comportamento di istituzione. Quando un lavoratore era iscritto a un sindacato industriale o a un partito, vi partecipava anima e corpo per tutta la vita e in ogni circostanza. Se cambiava tessera, era un trasformista e un voltagabbana.
Tutt’altra cosa sono gli aggregati della società postindustriale, che tendono ad assumere la forma di movimenti: fluidi, transitori, pronti a cambiare di volta in volta gli obiettivi, i metodi, le poste in gioco, i nemici e gli alleati. In questo Renzi e Napolitano – ma, per quanto possa sembrare paradossale, anche gli Scilipoti, i Razzi, i Verdini e, ora, i Marino – sono più postindustriali di Bersani e di D’Alema.
Man mano che la società transita dalla sua vecchia forma industriale alla sua nuova forma postindustriale, molte istituzioni evolvono in movimenti e molte alleanze trasmutano in funzione degli obiettivi cangianti. Il più delle volte questi cambiamenti non sono progettati in anticipo e perseguiti con sistematicità, non hanno un’origine e una fine ben marcate, sono acefali perché non hanno una leadership precisa che ne guida l’evoluzione. E la loro condotta è dettata da esigenze tattiche più che da progetti strategici. La strategia, se proprio necessario, sarà ricavata a posteriori, come sintesi delle varie azioni tattiche messe in atto.
Per quanto accompagnata certamente da incontri più o meno occulti, la convergenza dei verdiniani con i renziani era nell’ordine delle cose: apparteneva al genere dei movimenti più che a quello delle istituzioni, così come allo stesso genere appartiene la separazione (magari transitoria) tra queste due forze dopo l’esito scoraggiante delle ultime elezioni.
A maggior ragione la convergenza di una parte degli elettori di Cinque Stelle con i leghisti non ha bisogno di assumere i connotati di un patto istituzionale: è nell’ordine delle cose e appartiene al genere “movimento”. E’ un giro di valzer provvisorio che risponde all’esigenza del momento (il ballottaggio) e al comune intento tattico (disarcionare Renzi). Queste due forze in campo sono accomunate, per un tratto di strada, dall’insofferenza non nei confronti dello Stato e dei partiti, ma nei confronti di “questo” Stato, di “questo” Governo, di “questi” partiti. Passata questa convergenza naturale in vista del ballottaggio, ci potete giurare che Lega e 5 Stelle andranno ognuno per la propria strada, divisi come sono sull’idea di Europa, di lavoro, di reddito di cittadinanza.
Cambiati i fenomeni, vanno cambiate anche le loro interpretazioni. Titolare, come ha fatto qualche giornale, “Nasce il Carroccio a 5 Stelle” significa applicare una interpretazione industriale a un fenomeno postindustriale. I sociologi lo chiamano “cultural gap”. Bisogna rassegnarsi: terminata l’era dei matrimoni indissolubili tra forze sociali, dobbiamo abituarci ai divorzi, alle sbandate, persino alle sveltine. E’ la società “liquida”, secondo la definizione tanto banale quanto corteggiata di Zygmunt Bauman.
*** Domenico DE MASI, sociologo e saggista, Cultural Gap, riproduzione integrale, 'linkedin/pulse.com', 21 giugno 2016, qui
In Mixtura altri 13 contributi di Domenico De Masi qui
Nessun commento:
Posta un commento