... la società diventa «società civile» a condizione che essa trovi un senso e una ricomposizione unitaria. Questo è il compito primo e più profondo dell’arte di governare, che nel dar senso all’agire politico rinviene la propria ragione d’essere. Quel che suole chiamarsi la produzione del legame sociale non è scontato, né è il frutto di un moto naturale della società. Legame sociale come integrazione che viene definita dal conflitto e tramite il conflitto quando – e solo se – trova una sintesi dialettica non definitiva, ma pur sempre opera di riunificazione e della traduzione di interessi individuali in interessi sovraindividuali, di classe, di ceto, di parti; riuscendo, in tal modo, a stabilire un «interesse generale», di natura non ontologica, bensì di carattere sociale e civile. Una politica che si riduce a dar voce ai lati oscuri, alle paure, agli egoismi delle moltitudini senza riuscire ad esprimere un progetto di civiltà «alta», illuminata, riconoscibile in base a valori civili o percorsi emancipatori, è una politica impolitica, che nel momento stesso in cui crede di interpretare il mondo, in realtà non riesce più a parlare del mondo (tanto meno a trasformarlo, s’intende). Le ragioni dell’autoreferenzialità della politica da tutti denunciata vanno rinvenute, in ultima analisi, in una sorta di paradosso o di corto circuito cui la politica è pervenuta: una politica specchio piatto della società, dove tutti i vizi di questa si riflettono su quella e dove vanno perdute invece tutte le virtù non coltivate che potrebbero (dovrebbero) innescare quel meccanismo di aggregazione sociale e di costruzione artificiale del legame sociale e civile. Una politica vuota a fronte di una società vuota. Non può allora stupire che ad una società autoreferenziale corrisponda una politica autoreferenziale.
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