Ralf Dahrendorf si chiedeva: dove sono i ceti che, promuovendo la propria libertà, promuovono la libertà di tutti? Cento anni prima, Marx aveva identificato questo ceto nel proletariato. Sarebbe possibile identificarlo oggi nella borghesia manageriale? Probabilmente, la maggioranza dei manager risponderebbe orgogliosamente di sì. A partire dagli anni Novanta, infatti, con un attacco neoliberista a tutto campo del privato contro il pubblico (guidato dall’ordine di Reagan: «Affamare la bestia»), le ragioni dell’impresa hanno aggredito quelle della pólis e i criteri organizzativi dell’azienda si sono candidati per regolare anche la gestione della vita pubblica. Secondo questa visione «aziendocentrica», la cultura manageriale è migliore di ogni altra cultura, compresa quella politica: dunque, ha diritto di condizionare anche il potere legislativo e quello amministrativo.
Ma in che cosa consiste tale cultura? Consiste nel primato dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni; nella sistematica identificazione con i vertici e nell’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come antitetico al piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, a restare con i piedi per terra, a rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.
Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale appena agli albori. Nello scenario di questa nuova società, l’impresa resta un’istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipendono quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni.
Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che essi stessi pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.
Per evitare un simile collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, in mancanza della quale non potranno diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resteranno un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.
*** Domenico DE MASI, sociologo, docente emerito dell'università di Roma La Sapienza, Tag. Le parole del tempo, Rizzoli, 2015
In Mixtura altri 9 contributi di Domenico De Masi qui (compresa una mia recensione al libro da cui è tratto il testo sopra riportato)
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