Domenica di primavera: un sole tiepido, un'aria dolce che accarezza.
Il vecchio è seduto sulla panchina del parco, la faccia seminascosta da un quotidiano che sta sfogliando.
Il vecchio è seduto sulla panchina del parco, la faccia seminascosta da un quotidiano che sta sfogliando.
Il giovane che gli sta passando davanti, lungo il vialetto di ghiaia, gli lancia uno sguardo distratto, più colpito dai titoli del giornale che dal volto del lettore.
Improvvisamente si blocca. E si gira, per osservare meglio.
Ha un colpo al cuore: è lui, non c'è dubbio.
Fa tre passi indietro e si ferma davanti al vecchio, fissandolo negli occhi.
Il vecchio, intento nella lettura, non può non accorgersi e abbassa il giornale, anche lui guardando l'uomo: che vuole da lui?
L'uomo non si trattiene.
«Ma è lei», esclama stupìto e pieno di una gioia improvvisa.
Mentre il vecchio ha la faccia sempre più interrogativa, lascia trascorrere qualche secondo: un po' per essere sicuro di non sbagliare e un po' per lasciare tempo al vecchio di riordinare la memoria.
Poi ripete a voce alta, anche parlando a se stesso:
Poi ripete a voce alta, anche parlando a se stesso:
«Non c'è dubbio: è lei.»
Il vecchio fa cadere il giornale di fianco sulla panchina.
«Ci conosciamo?».
L'uomo sorride.
«Certo che ci conosciamo. Lei è il professor Bellamico, non è vero?».
Il vecchio annuisce: gli esce un sospiro.
«Lo sono stato per quarant'anni. Oggi sono in pensione. La scuola è un ricordo lontano e nessuno più sa chi sono io».
L'uomo lo corregge con gentilezza.
«Nessuno meno uno: io so chi è lei. E non l'ho mai dimenticata. Non ho 'potuto' farlo».
«E' stato un mio alunno? Le chiedo scusa. Prima mi lamentavo perché nessuno si ricorda di me, ma stavolta sono io che ho perso i ricordi. Lo so, accade, invecchiando: ma non mi rassegno ed è uno dei fardelli per me più insopportabili della vecchiaia. Mi dia qualche secondo... Niente, la sto fissando, ma in testa ho soltanto nebbia. Mi aiuti, la prego. Odio queste figuracce: specie se lei è stato uno dei miei ragazzi.»
L'uomo gli porge la mano.
«Sono Della Strada, Marco Della Strada. Vent'anni fa, liceo Ugo Foscolo, sezione D.».
Il vecchio, mentre stringe la mano, socchiude gli occhi: prova a tornare indietro nel tempo.
E' imbarazzato, non riesce a mettere a fuoco.
E' imbarazzato, non riesce a mettere a fuoco.
L'ex alunno lo tranquillizza: vuole trasmettergli tenerezza e affetto.
«Non si preoccupi: ora io le faccio venire in mente tutto.»
Il vecchio fa spazio al giovane sulla panchina e lo invita a sedersi accanto, mentre ripiega il giornale: ora è curioso di sapere.
L'uomo racconta.
«Ultimo anno di liceo, 17 anni. Diciamo che l'adolescenza mi stava preparando un brutto futuro: poca voglia di studiare, cattive compagnie, conflitto con i genitori, comportamenti fuori dalla regole. A voler essere eufemistici, uno scapestrato. Di fatto un ragazzino che si avviava a diventare un delinquentello. Un giorno, mentre sono al bagno durante l'intervallo, noto su uno dei lavabi un orologio firmato, di grande valore, dimenticato da un compagno di un'altra classe. Me lo metto in tasca proprio un attimo prima che il proprietario, un ragazzo che conoscevo e disprezzavo per le sue arie da figlio di papà, rientrasse in bagno, tutto trafelato e preoccupato per aver dimenticato l'oggetto prezioso. Lui mi guarda in silenzio per qualche secondo, poi mi accusa di furto e pretende che gli restituisca l'orologio, sicuro che il ladro sia io. Io faccio l'offeso e nego. Dico che nei bagni c'è stato un viavai e chissà quanta gente di tutte le classi è entrata e uscita prima che lui si accorgesse di aver dimenticato l'orologio e venisse a cercarlo. Litighiamo. Ci spintoniamo. Ma riusciamo a non metterci le mani addosso. Poi lui esce di corsa dai gabinetti e corre dal preside: gli riferisce che non può accusare pubblicamente nessuno, ma certamente qualcuno gli ha rubato l'orologio. Pretende che il preside avverta i professori delle classi e che in ogni classe si faccia una verifica. Soprattutto, aggiunge il ragazzo, si controlli la III D. Altrimenti, minaccia, sarebbe andato alla polizia per denunciare il furto.»
Il vecchio ha seguito il racconto con partecipazione.
Negli occhi rivede il passato: ora la storia sta facendo correre ogni fotogramma come fosse oggi.
Il giovane ha rievocato l'episodio tutto d'un fiato.
Adesso torna a fissare il vecchio.
«Ricorda, allora, professor Bellamico?».
Il vecchio professor Bellamico è turbato: fa cenno di sì.
Attende che il giovane prosegua: anche se non avrebbe bisogno di sapere il seguito.
L'ex allievo riprende.
«Quando i bidelli avvisarono i professori dell'accaduto e dell'invito del preside a effettuare un controllo presso i propri studenti, classe per classe, lei si è alzato in piedi e ha chiuso la porta dell'aula. Ha commentato che nella scuola era accaduto un fatto molto grave, che non poteva passare sotto silenzio. Disse che ora avrebbe chiesto a tutti di fare una cosa strana, ma assolutamente fondamentale. E ha ordinato a ognuno di noi di poggiare le braccia sui banchi, nascondendovi la faccia e tenendo accuratamente gli occhi chiusi. 'Ermeticamente chiusi', scandì almeno due volte. Aggiunse, con voce seria e grave, che chi avesse disobbedito sarebbe stato bocciato in tutte le materie e avrebbe dovuto ripetere l'anno: sottolineò che non ci sarebbe stata indulgenza neppure per i primi della classe. Poi precisò che lei stesso avrebbe imitato noi studenti chinandosi sulla cattedra e nascondendo la faccia e gli occhi tra le braccia. Chi avesse avuto l'orologio, poteva alzarsi e portarlo nel ripiano dei gessetti, sotto la lavagna. Nessuno l'avrebbe visto e la sua identità sarebbe rimasta nascosta per sempre. Aggiunse che avrebbe contato lentamente fino a trenta. E solo al termine della numerazione, fatta a voce alta, tutti avrebbero potuto rialzare la testa. Così avvenne. Nessuno disobbedì e tutti tenemmo gli occhi chiusi sino al suo segnale: lei aveva un'autorevolezza indiscussa.»
Il giovane stava per riprendere.
Ma il professor Bellamico lo interrompe: ora toccava a lui.
«Quando terminai di contare fino a trenta, mi alzai dalla cattedra e guardai nel portagessetti sotto la lavagna. Non c'era nessun orologio. Qualcuno sembrava sollevato. Ci fu chi imprecò contro il ragazzo che aveva denunciato il furto senza avere prove. Io subito troncai ogni discussione: dissi che la verifica non era finita. Che si rimettessero nelle posizioni di prima: facce sui banchi, nascoste nelle braccia, e occhi chiusi. Rigorosamente chiusi. Io sarei passato accanto a ognuno di loro. E avrei messo le mani nelle loro tasche. Al termine avrei comunicato l'esito della prova. E così feci. Quando annunciai a tutta la classe che avevo finito e che i ragazzi potevano aprire gli occhi e liberare i volti dalle braccia, sollevai in alto l'orologio. 'Era nelle tasche di uno di voi', dissi. Non aggiunsi altro. Uscii dall'aula e andai dal preside a consegnare l'orologio. Lui naturalmente voleva sapere chi fosse il responsabile, ma io feci subito capire che non avrei detto nulla a nessuno. Il preside mi conosceva e non insistette: del fatto non si parlò più».
Marco Della Strada era emozionato: emise un lungo sospiro.
Poi riprese il racconto: il professore sembrava non aver più nulla da aggiungere.
Poi riprese il racconto: il professore sembrava non aver più nulla da aggiungere.
«Vero: lei non disse altro, né a caldo, quando rientrò in classe dopo aver consegnato l'orologio al preside, né nei giorni successivi. Quel fatto fu come non fosse mai avvenuto e nessuno seppe mai chi fosse l'autore del furto. Anche tra noi ragazzi non se ne fece più cenno. Ne stiamo riparlando solo oggi. E solo perché io l'ho spinta a ricordare».
L'uomo si interruppe.
Fino a quel momento, seduto sulla panchina a fianco del vecchio, aveva guardato fisso davanti a sé, come per concentrarsi meglio mentre raccontava. Ora si era girato, gli occhi negli occhi del professore.
«Lei, professor Bellamico, mi ha salvato la vita: salvando la mia dignità di essere umano. Perché nessuno può essere 'infilzato' e imprigionato, nella sua essenza profonda, dentro un solo atto: ridotto a un unico comportamento, per quanto ignobile e spregevole esso sia. Lei ha impedito che io venissi stigmatizzato come ladro: fissato per sempre in quella violenta e inappellabile definizione. Ha evitato che io per primo mi attribuissi questo stigma per il resto dei miei giorni e che la classe intera, ogni giorno, fino al termine della scuola, mi gettasse addosso, esplicitamente o implicitamente, questa vergognosa qualifica. Ha consentito che io potessi non essere ciò che avevo fatto, ma essere libero di scegliere di divenire altro. Quel giorno in cui mi trovò l'orologio in tasca è stato il giorno della mia vergogna. Assoluta. Totale. Mai provato nulla di peggio. E proprio il suo silenzio è stato il messaggio più potente che mi potesse far arrivare: la lezione morale, più dura e educativa, che potessi ricevere. Se dico che lei mi ha cambiato la vita, non è retorica. E' nei fatti. Sono l'uomo che sono diventato grazie a lei. Ho scoperto la mia strada grazie a lei. Faccio, con convinzione e passione, il mestiere che faccio grazie a quel giorno e al comportamento tenuto da lei nel suo ruolo più alto di educatore. E oggi è il giorno più bello della mia vita perché la fortuna mi ha portato casualmente a passeggiare davanti a questa panchina, ho potuto riconoscerla dietro un giornale e finalmente posso ringraziarla di persona.»
L'uomo si interruppe.
Fino a quel momento, seduto sulla panchina a fianco del vecchio, aveva guardato fisso davanti a sé, come per concentrarsi meglio mentre raccontava. Ora si era girato, gli occhi negli occhi del professore.
«Lei, professor Bellamico, mi ha salvato la vita: salvando la mia dignità di essere umano. Perché nessuno può essere 'infilzato' e imprigionato, nella sua essenza profonda, dentro un solo atto: ridotto a un unico comportamento, per quanto ignobile e spregevole esso sia. Lei ha impedito che io venissi stigmatizzato come ladro: fissato per sempre in quella violenta e inappellabile definizione. Ha evitato che io per primo mi attribuissi questo stigma per il resto dei miei giorni e che la classe intera, ogni giorno, fino al termine della scuola, mi gettasse addosso, esplicitamente o implicitamente, questa vergognosa qualifica. Ha consentito che io potessi non essere ciò che avevo fatto, ma essere libero di scegliere di divenire altro. Quel giorno in cui mi trovò l'orologio in tasca è stato il giorno della mia vergogna. Assoluta. Totale. Mai provato nulla di peggio. E proprio il suo silenzio è stato il messaggio più potente che mi potesse far arrivare: la lezione morale, più dura e educativa, che potessi ricevere. Se dico che lei mi ha cambiato la vita, non è retorica. E' nei fatti. Sono l'uomo che sono diventato grazie a lei. Ho scoperto la mia strada grazie a lei. Faccio, con convinzione e passione, il mestiere che faccio grazie a quel giorno e al comportamento tenuto da lei nel suo ruolo più alto di educatore. E oggi è il giorno più bello della mia vita perché la fortuna mi ha portato casualmente a passeggiare davanti a questa panchina, ho potuto riconoscerla dietro un giornale e finalmente posso ringraziarla di persona.»
Il professor Bellamico si passa una mano sugli occhi, per trattenere una lacrima che gli si sta formando. Ha sempre odiato le sdolcinature: e anche in questo momento ha la riprova di quanto sia fastidiosa la vecchiaia, che lo fa scivolare in un momento di commozione facile.
Si sente a disagio: vorrebbe cambiare discorso, mettere fine a quel ricordo.
Si sente a disagio: vorrebbe cambiare discorso, mettere fine a quel ricordo.
Ma una frase del giovane, prima, l'ha colpito.
«Mi diceva che se oggi fa quel che fa lo deve anche a quell'episodio. Posso chiederle allora qual è la sua professione?»
Il giovane è felice di confessarglielo.
«Insegno storia e filosofia. E faccio volontariato nelle carceri. Sono impegnato nell'educazione dei giovani. Ce la metto tutta: non so se ci riesco, ma ci provo, avendo lei come modello. L'ho deciso, appunto, quel giorno.»
Poi, convinto di fare una domanda ormai inutile, sorride:
«Allora, professor Bellamico, mi guardi bene: adesso mi riconosce?»
Il vecchio scuote la testa.
«No, caro ragazzo. Continuo ad avere i ricordi offuscati. L'episodio dell'orologio è ben stampato in mente: mi aveva molto scosso ed è stato impossibile cancellarlo, come ha potuto anche notare dai dettagli con cui ho completato il suo racconto. E' che, chissà, forse proprio anche per questo, i ricordi della intera classe di quell'anno si sono confusi: dovrei recuperare la foto di classe. Le ho tutte, sa?. E oggi, tornato a casa, vado a scartabellare negli album: magari, anche grazie all'incontro di adesso, ritrovo gli elementi che ora mi mancano».
L'ex allievo è poco convinto.
L'ex allievo è poco convinto.
«Eppure, professore, quando mi ha trovato l'orologio in tasca, io non ci ho fatto caso, ma lei, anche senza darlo a vedere, deve avermi ben fotografato...».
Il professor Bellamico, mentre allarga il viso in un sorriso affettuoso e benevolo, mette una mano sulla spalla del giovane.
Il professor Bellamico, mentre allarga il viso in un sorriso affettuoso e benevolo, mette una mano sulla spalla del giovane.
«Si sbaglia, caro Marco. Non ho mai saputo chi era l'autore del furto: me lo sta dicendo adesso lei».
Il giovane fa un gesto, come per dire che non capisce.
«Ma non è possibile...».
«E' semplice. Anch'io, come tutti voi, tenevo gli occhi rigorosamente chiusi mentre cercavo quel maledetto orologio. Passavo da uno all'altro di voi andando a tentoni: non potevo collegare neppure i posti occupati ai vostri nomi, anche perché, come sapete, io non protestavo più di tanto quando li cambiavate ogni giorno. No, procedevo più cieco di un cieco. In parte per non sapere e dunque non dovere fare i conti, successivamente, se avessi trovato l'orologio, con il duro giudizio che sarebbe nato dentro di me nei confronti dell'autore del furto. E in parte perché, in fondo, un po' mi vergognavo di violare in quel modo la vostra privacy, avendovi obbligato a subire quell'ispezione quasi corporale. E tutto questo, tra l'altro, senza mai avervi chiesto scusa anche nei giorni seguenti: come forse avrei dovuto. Ma su tutto, e lo dico senza voler sfuggire alla responsabilità delle scuse mancate, è prevalsa la volontà di mettere da subito una pietra tombale sull'accaduto. Per sempre. Tuttavia, non avevo fatto i conti con lei, che dopo oltre vent'anni mi ha ritrovato, come tutti i vecchi, al parco, seduto su una panchina. Le debbo dire grazie, caro Marco Della Strada: mi ha ridato un po' di vita e sono felice di averla come giovane collega...».
Il giovane fa un gesto, come per dire che non capisce.
«Ma non è possibile...».
«E' semplice. Anch'io, come tutti voi, tenevo gli occhi rigorosamente chiusi mentre cercavo quel maledetto orologio. Passavo da uno all'altro di voi andando a tentoni: non potevo collegare neppure i posti occupati ai vostri nomi, anche perché, come sapete, io non protestavo più di tanto quando li cambiavate ogni giorno. No, procedevo più cieco di un cieco. In parte per non sapere e dunque non dovere fare i conti, successivamente, se avessi trovato l'orologio, con il duro giudizio che sarebbe nato dentro di me nei confronti dell'autore del furto. E in parte perché, in fondo, un po' mi vergognavo di violare in quel modo la vostra privacy, avendovi obbligato a subire quell'ispezione quasi corporale. E tutto questo, tra l'altro, senza mai avervi chiesto scusa anche nei giorni seguenti: come forse avrei dovuto. Ma su tutto, e lo dico senza voler sfuggire alla responsabilità delle scuse mancate, è prevalsa la volontà di mettere da subito una pietra tombale sull'accaduto. Per sempre. Tuttavia, non avevo fatto i conti con lei, che dopo oltre vent'anni mi ha ritrovato, come tutti i vecchi, al parco, seduto su una panchina. Le debbo dire grazie, caro Marco Della Strada: mi ha ridato un po' di vita e sono felice di averla come giovane collega...».
*** Massimo Ferrario, Il vecchio professore e il furto dell'orologio, per Mixtura - Riscrittura libera e rielaborata di un testo anonimo, frequentemente riportato in vari siti internet.
In Mixtura ark Favole&Racconti di Massimo Ferrario qui
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