La precarietà della vita può aiutare alcune persone ad apprezzare le cose, in quanto esse lasciano emergere, in questo modo, la loro unicità e quindi la loro bellezza.
Tuttavia, non è vero in assoluto, e non è vero per tutti, che per amare la vita e tutto ciò che essa ci può dare, dobbiamo farci venire una malattia per poi sopravvivere scoprendo cosi nuovi orizzonti.
Oppure subire un trauma, cadere in depressione, farci del male in qualche modo, e via di seguito.
Possiamo apprezzare la bellezza, ad esempio, attraverso il piacere.
E questo può accadere in modo spontaneo, cioè naturalmente, in ognuno di noi.
Oppure, alcune persone che ammiriamo e che a loro volta amano la vita con le loro passioni, possono averci educato per imitazione a fare questo.
Comprendo benissimo e condivido il pensiero di chi, nella sofferenza, ha riscoperto modi di emozionarsi che prima gli erano negati (e chi mi conosce sa bene il mio pensiero a tale proposito).
Il dolore ha aperto un varco all'interno dell'anima, riuscendo a farla respirare in sincronia con il respiro del mondo in una maniera mai vissuta prima.
Tuttavia, il rischio che deriva da questa "esclusività", cioè dal concetto per il quale "solo chi ha sofferto può capire certe cose", è quello di generalizzare una esperienza soggettiva estendendola all'intera umanità.
Cioè a esperienze altre, non direttamente implicate con il dolore, alle quali non abbiamo fondamentalmente accesso.
Il dolore non dovrebbe insegnare a mettersi sul piedistallo.
Ma a elevare la persona verso una saggezza che include anche l'essere umili, facendole vivere il sentimento di un'esperienza universale capace di metterci tutti sullo stesso piano.
Il dolore insegna l'uguaglianza e la condivisione nella fragilità.
*** Omar MONTECCHIANI, 1978, counselor, Cosa può insegnare il dolore, facebook, 5 aprile 2019, qui
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