Io sono una linguista, per l'esattezza una sociolinguista.
Un linguista non è uno che conosce tante lingue. Non è nemmeno uno che conosce tante parole della sua lingua madre (anche se molti linguisti, effettivamente, conoscono diverse lingue e possiedono un lessico molto ampio).
Un linguista, insomma, non è un superparlante della propria lingua. Fa, invece, qualcosa di diverso: fa riflessione METACOGNITIVA sulla lingua.
Laddove la maggior parte dei parlanti si ferma all'uso (anche molto corretto, anche molto raffinato) del proprio idioma, il linguista non ha requie: si chiede perché la lingua funzioni proprio in quel modo, come si faccia ad acquisirla, che differenze ci siano tra la lingua madre e le lingue che uno impara successivamente, che cosa voglia dire quel certo errore commesso ricorsivamente dai parlanti, perché certe forme svaniscano, perché si formino certi neologismi, per quale motivo quasi mai si possa dire che una certa cosa sia corretta o scorretta in maniera netta...
Si chiede anche come sia il rapporto tra i parlanti di una certa lingua e la lingua stessa; come questo possa essere migliorato portando benefici alle persone, più che alla lingua. Quest'ultima, infatti, alla fin fine è al servizio dei suoi parlanti, e non viceversa.
Un linguista è pieno di dubbi in merito alla propria lingua, e anche in merito al rapporto di questa con le altre lingue. Perché difficilmente si ferma a una prospettiva rigidamente monolinguistica, ma pensa a tutto il coacervo di idiomi che convivono, più o meno pacificamente, attorno a lui.
Una cosa, però, ogni linguista la impara più o meno alla prima lezione del primo corso di linguistica che frequenta: sostituire una lingua a un'altra è sempre un errore che porta a una perdita cognitiva. La parola chiave è multilinguismo: ora e sempre.
*** Vera GHENO, sociolinguista, facebook, 11 febbraio 2018, qui
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