Mattina. Frecciarossa 1000. Da qualche parte tra Bologna e Milano. Il treno è pieno. Tornando dal bagno (in cui sono andato bardato come un soldato in missione, con tutti i miei averi addosso) trovo accanto al mio posto un signore seduto che prima non c’era. Sono in uno di quei posti a 4 con tavolino in mezzo. Il tipo è abbastanza distinto, ha gli occhiali, è in maniche di camicia. Sta parlando con la ragazza che ha davanti a sé oltre il tavolino.
Mi siedo e non ci faccio molto caso. Apro il mio ipad, mi metto a leggere cose ma, a mano a mano che leggo, sento come se qualcosa non tornasse. Ormai da tempo ho imparato a isolarmi completamente da tutto ciò che mi circonda, soprattutto dai discorsi e dai suoni di fondo (sempre presenti sui nostri treni). Stavolta però le parole del tizio rivolte alla ragazza hanno qualcosa che non va.
Alzo lo sguardo solo per un attimo e noto che la ragazza non guarda il tipo, ma alterna sguardi al cellulare e si gira spesso alla sua sinistra, verso il corridoio, parlando a delle ragazze sedute nei posti a 4 sul lato opposto. È lì che realizzo: il signore si rivolge a lei da diversi minuti, ma la ragazza non ha alcuna intenzione di ascoltarlo, anzi cerca di evitarlo.
A quel punto il mio orecchio si sintonizza immediatamente sulle parole del tizio, voglio capire cosa stia dicendo:
- “5000 amici su Facebook ma credi che ti siano davvero amici?”.
- “Se scrivi oggi mi suicido, con ora e luogo, pensi che qualcuno verrebbe a salvarti?”
- “Se potessi mettere per iscritto l’indifferenza di oggi farei una frase lunga come la prima fascia di Giove (segue numero di kilometri che non ricordo)”.
E così via...
Sta snocciolando una litania infinita di invettive davvero brillanti e fantasiose, il tutto rivolto alla ragazza che, in evidente imbarazzo, cerca di salvarsi dissimulando con il cellulare o cercando la solidarietà delle amiche.
La situazione è davvero assurda: lui sbraita in modo vivace e teatrale, lei cerca scampo, noi spettatori non sappiamo se ridere, se preoccuparci, se intervenire. È una situazione di stallo totale.
La cosa più divertente: lui è perfettamente a suo agio, infatti continua le sue invettive come se non ci fosse un domani, sfoderando una chicca dopo l’altra:
- “Quello è il classico auricolare alla milanese per non sentire cosa accade attorno”.
- “Dovrebbero fare le bare con la tasca per il cellulare in modo che quando uno muore può portarlo con sé”.
- “Si fa come sui social: si parla solo con le persone con cui si è già d’accordo”.
E via così, senza esitazioni, con ritmo e forza.
La ragazza è sempre più imbarazzata e in cerca di vie d’uscita. Le amiche un po’ ridono, un po’ son preoccupate. Io non so se mettermi a ridere o se fare qualcosa.
Alla fine il tizio si alza e, proseguendo senza alcuna interruzione il suo florilegio di invettive, si mette in un altro posto. A prendere il suo, appena liberato, una ragazza che, avendo assistito alla scena, in uno slancio di altruismo fa sì che il tizio non possa tornare.
Ci guardiamo e, mentre si sentono ancora i suoi rilievi polemici, ci diciamo: “quanto sta fuori quel tizio?”. Ma non siamo così convinti...
Quante volte ci è venuta voglia di rovesciare addosso a chi abbiamo davanti a caso, una per una, in modo che tutti sentano e se ne accorgano, le idiosincrasie grandi e piccole che ci portiamo dentro?
Mentre penso a quel tizio e un po’ anche mi preoccupo, realizzo: vuoi vedere che, alla fine, la differenza tra noi e lui non è poi così marcata? Forse noi non facciamo così solo perché, da qualche parte e in qualche momento nella vita, abbiamo qualcuno che quelle frustrazioni le dissipa, semplicemente perché ci ascolta.
Siamo arrivati a Milano. Scendo un po’ scontento. Con rammarico penso che forse a quel tizio bastava dargli un po’ retta.
*** Bruno MASTROIANNI, filosofo e esperto di comunicazione, facebook, #diariopendolare, 24 marzo 2018, qui
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