Una narrazione (o narrativa, come si dice anche, ricalcando l’inglese narrative) che di fatto sostituisce l’argomentazione con l’affabulazione. Affabulazione, in effetti, sarebbe la parola giusta per rendere al meglio storytelling. O anche la variante fabulazione (dal francese fabulation): la parola usata da Henry Bergson per definire la tendenza dell’uomo a creare miti e raffigurazioni fantastiche come antidoto alla paura della morte. Parola ripresa oggi dagli psicologi per indicare la presentazione come reale di un racconto immaginario. Affabulazione viene dal latino fabulare, che voleva dire «parlare». Ma – appunto – quello è anche l’etimo di favola, di fiaba e di fola «bugia, fandonia». Troppo spesso la politica ci racconta le favole che vogliamo ascoltare. E noi, come bambini, amiamo sentircele ripetere. E le ripetiamo noi stessi ai nostri amici, nella speranza che piacciano anche a loro. E che anche loro le raccontino a qualcun altro. Peccato che, in tutto questo, nessuno (o quasi) si preoccupi più di verificare se quelle favole abbiano in sé qualcosa di vero. Perché la narrazione implica la sospensione del giudizio a favore di quello che si chiama il «patto narrativo». Il criterio della verificabilità per le favole non vale. Per sua stessa natura, la narrazione esclude ogni tipo di riflessione e di discussione critica. È frontale e monologica. Va dall’uno verso i molti: in una direzione sola, come la corrente di un fiume. Mette tutti gli altri in una condizione di passività. Tu racconti e io ti credo. O non ti credo, ma comunque non posso ribattere. Non è previsto. La narrazione non si discute: si accetta o si rifiuta in blocco. Si odia o si ama. Il giudizio è sospeso, vale solo il pregiudizio. C’è poco da stupirsi, allora, se l’esito di questo modo di fare politica è il fronteggiarsi di faziosi schieramenti di seguaci.
*** Giuseppe ANTONELLI, 1970, linguista, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Laterza, 2017
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