La diagnosi più esatta per Hitler sarebbe stata quella di pseudologia phantastica, ossia quella forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi. Nulla è più persuasivo di una bugia a cui presta fede anche colui che l’ha ideata, o di un misfatto o di una cattiva intenzione della cui bontà è convinto l’autore stesso; in ogni caso sono molto più persuasivi di quanto lo possano essere l’individuo veramente buono o la semplice azione buona e l’individuo malvagio o la sua azione puramente malvagia. Il popolo tedesco non avrebbe mai potuto lasciarsi abbindolare dai gesti plateali, palesemente isterici, di Hitler – che agli stranieri, tranne qualche incomprensibile eccezione, riuscivano ridicoli – e dal suo modo di parlare stridulo, quasi femmineo, se questa figura, che per quanto potei vedere di persona mi apparve come uno spaventapasseri psichico (un manico di scopa come braccio alzato), non avesse in qualche modo fatto da specchio alla generale isteria dei tedeschi. Non è senza serie esitazioni che ci si azzarda ad apporre a un popolo intero la diagnosi di, diciamo così, “inferiorità psicopatica”, ma si tratta – lo sa il cielo! – dell’unico modo possibile di spiegarsi in qualche misura l’influenza che questo fantoccio esercitava sulle masse. Una bieca ignoranza su cui si innestava una capacità d’immaginazione esasperata fino al delirio, un’intelligenza molto mediocre combinata con la scaltrezza isterica e fantasie di potenza adolescenziali: ecco i tratti che stavano scritti in faccia a quel demagogo. Le sue mosse eran tutte artefatte, frutto dello studio di un cervello isterico, che badava solo a impressionare gli altri. In pubblico egli si comportava come uno che già vivesse nella sua biografia; si atteggiava a quella cupa e “demoniaca” figura dell’eroe “d’acciaio” che si trova nei romanzetti di consumo e nel mondo immaginativo di un pubblico infantile, che deriva la sua conoscenza del mondo dalle figure degli eroi di pessimi film. Da queste impressioni avevo allora (1937) concluso che la catastrofe finale sarebbe dovuta essere molto più ingente e cruenta di quanto non avessi supposto fino a quel momento. Infatti questa recita, tanto scoperta quanto isterica, non si svolgeva sull’assito di un palcoscenico, ma aveva per scenario le divisioni corazzate della Wehrmacht e l’industria pesante tedesca. Una “nazione di ottanta milioni” si assiepava nel circo per assistere alla propria distruzione, incontrando al suo interno solo una resistenza molto ridotta e in ogni caso inefficace. (...)
Nella pseudologia non si può essere certi che il movente principale sia l’intento truffaldino; spesso è il “grande progetto” a fare da protagonista e soltanto quando si avvicina lo spinoso problema della realizzazione pratica di tale progetto, solo allora, in base al detto “il fine giustifica i mezzi”, si sfrutta ogni possibilità e ogni mezzo diventa buono; questo significa che la situazione diventa pericolosa solo a partire dal momento in cui lo pseudologo viene preso sul serio da un pubblico di più ampie dimensioni. Egli deve faustianamente stringere il patto col diavolo e imbocca la via della perdizione.
*** Carl Gustav JUNG, 1875-1961, medico e psicoanalista svizzero, fondatore della psicologia analitica, Dopo la catastrofe, 1945, traduzione di Maria Anna Massimello, in Opere complete 1-18, volume 10, Civiltà in transizione: dopo la catastrofe, a cura di Luigi Aurigemma, edizione digitale, Bollati Boringhieri, 2013.
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