sabato 4 giugno 2016

#FAVOLE & RACCONTI / L'arco e il bersaglio (M. Ferrario)

Il Giovane Principe era noto per il suo caratteraccio: bizzoso, superbo, vanitoso, arrogante, spesso violento.
Non ammetteva che i suoi desideri non venissero subito soddisfatti: anche un solo minuto di ritardo nel rispondere ai suoi capricci poteva costare una tremenda punizione per il povero servitore personale che lo accudiva ad ogni ora del giorno e, spesso, della notte.
Da poco meno di un anno si era innamorato del tiro con l'arco. 
Aveva ordinato ai funzionari di corte di trovargli l'arciere più esperto del regno, perché gli insegnasse l'arte del lanciare le frecce. 
Il Gran Maestro, che lo seguiva con pazienza e dedizione da mesi, era il campione dei campioni. Le sue frecce andavano a bersaglio con precisione assoluta. Possedeva un arco speciale, che aveva costruito lui stesso, mettendo a frutto la sua lunga esperienza di tiratore. Nessuno sapeva centrare l'obiettivo da oltre trenta metri: solo lui ne era capace.

L'ambizione del Principe era di battere il Gran Maestro: ad ogni lezione scalpitava, sognando il momento in cui avrebbe potuto vincerlo in gara. 
Si immaginava il grande giorno: la folla nella piazza principale del paese, la gara con i migliori arcieri del Regno, poi finalmente il confronto con il Gran Maestro. Il trionfo, nella sua immaginazione, era scontato: la gente avrebbe inneggiato alla sua grande prova e lui sarebbe entrato nella leggenda.

Tuttavia il Gran Maestro dubitava del talento del suo nobile allievo. 
Lo vedeva duro, legnoso, incapace di darsi il tempo necessario per qualunque vero apprendimento, troppo preoccupato del risultato. Lo incitava a 'lasciarsi andare', a non pensare soltanto al bersaglio, a 'sentire' con tutto il corpo la tensione della corda prima del lancio e a sintonizzare l'anima con la freccia durante il volo. 
Certo, gli ripeteva, l'obiettivo da colpire è importante, ma ancora più importante è subire il dolce e potente fascino dell'arco allo scoccare della freccia: entrare in vibrazione con lo strumento, vivere nel presente i gesti preparatori e l'atmosfera all'aria aperta del luogo in cui si svolgono i tiri. 
Insomma, per il Gran Maestro l'arco era qualcosa di sacro: non da impugnare, ma da maneggiare con fermezza unita a rispetto e non invece con la prepotenza di chi mira solo ad affermare se stesso con l'unico fine di centrare inesorabilmente il bersaglio.

L'addestramento quindi procedeva a fatica. 
Il Principe si mostrava riottoso, impaziente, nervoso. 
Finché venne il giorno in cui decise di licenziare il Gran Maestro e proseguire da solo l'allenamento.
«Ma ci rivedremo presto», gli preannunciò. «Quando mi sentirò pronto, ti chiamerò e ti sfiderò. E naturalmente ti vincerò e sarò io allora il campione dei campioni». 

Passarono mesi. 
Ogni giorno il Principe, caparbiamente, dedicava parecchie ore a esercitarsi con l'arco. 
Ma i risultati rimanevano deludenti. 
E una terribile depressione lo colpì, costringendolo a letto la gran parte del tempo. L'arco ormai era un ricordo doloroso: giaceva in un angolo della stanza, meticolosamente spolverato e lucidato ogni mattina dai servi, ed era il segno incancellabile della sconfitta cocente della sua vita.

Il Re e la Regina erano preoccupati per la malattia del figlio e avevano mobilitato tutti i medici del regno. Ma nessuno aveva trovato il farmaco che lo guarisse.
Il Principe deperiva a vista d'occhio: si era chiuso in un mutismo assoluto, rifiutava il cibo e impediva a chiunque di entrare nella sua camera.
La situazione pareva irrimediabile e destinata a concludersi tragicamente.

Fu un mattino di primavera che il Gran Maestro arciere fece una scoperta che gli fece subito pensare al Principe: lo sapeva gravemente malato e nonostante il rapporto burrascoso avuto con lui, ne era dispiaciuto.
Nel suo vagabondare per le varie gare di tiro con l'arco che ogni mese si tenevano nelle località più diverse, era capitato in un villaggio al confine del regno: qui aveva notato, nei boschi della zona, parecchi alberi con i tronchi trafitti da frecce, ancora svettanti, perfettamente al centro dei bersagli. 
Aveva controllato con attenzione. E non fidandosi dell'occhio, era ricorso agli strumenti di misura che portava sempre con sé: ogni bersaglio, per ogni albero, era stato centrato con una precisione millimetrica. Chi aveva tirato doveva essere un arciere formidabile.

Il Gran Maestro, incuriosito, chiese in giro per il villaggio se sapevano chi fosse l'autore di quei tiri. I vecchi del paese gli dissero che, se l'indomani si fosse fatto trovare nella radura del bosco vicino al piccolo fiume, avrebbe incontrato la persona che cercava.

Così accadde. 
Il Gran Maestro ebbe modo di conoscere l'arciere e di apprendere il suo segreto.
Dopo aver trascorso insieme una giornata intera ed essere rimasto impressionato da quello che vide, decise che era assolutamente indispensabile che l'arciere parlasse al più presto con il Principe. 
Gli chiese solo un favore: di accettare di indossare dei panni che rendessero irriconoscibile la sua figura. 

Partirono subito: occorreva arrivare a corte prima possibile.
Quando finalmente giunsero alla reggia e il Gran Maestro spiegò le ragioni della visita, il Re e la Regina li accolsero con scetticismo: ormai temevano che nulla potesse salvare il principe. 
Ma si aggrapparono all'ultima speranza e fecero strada fino agli appartamenti del figlio. La porta principale, come sempre, era chiusa e l'ordine perentorio, valido per chiunque, era di non entrare per nessuna ragione. 

Il Re e la Regina, concordi nel concedere al forestiero la facoltà di violare il comando del figlio, incitarono l'arciere sconosciuto a varcare la soglia proibita.
Loro, insieme con il Gran Maestro, si trattennero in corridoio, curiosi e sempre più preoccupati: non potevano che attendere gli eventi. 

L'arciere entrò.
Richiuse subito a chiave la porta.
E come prima risposta al Principe, che urlava perché qualcuno aveva osato disobbedire al suo ordine, si tolse i panni del travestimento, mostrandosi per chi era e cercando di spiegare subito le ragioni della sua venuta a corte. 
Le grida cessarono.
Da fuori si sentì un parlottare fitto per ore.
Poi solo silenzio, interrotto ogni tanto dal leggero russare del Principe.

Trascorse la notte, e nulla sembrò accadere.

La mattina seguente, il Principe, agghindato di tutto punto come da mesi non capitava, si presentò sorridente ai genitori e al Gran Maestro, che si erano addormentati esausti su una panca del corridoio: era emaciato, ma mostrava energia, voglia di fare, determinazione. 
Baciò con calore sulle guance i genitori.
Poi prese da parte il Gran Maestro.
«Mi confermi che tutto quello che mi è stato raccontato è vero?»
Il Gran Maestro lo rassicurò:
«Ve lo confermo, Principe. Vi sembrerà incredibile, ma ciò che avete sentito io l'ho potuto constatare con i miei occhi.»
«Ma è solo...»
Non terminò la frase perché il Gran Maestro lo anticipò:
«Lo so, Principe. Eppure, vedrete voi stesso. Del resto, se non fosse come è, vi assicuro che non avrei osato turbare la vostra decisione di appartarvi dal mondo...»
Il Principe non aveva mai dubitato della competenza e della lealtà del Gran Maestro e quelle parole non fecero che rafforzare la convinzione che già aveva maturato nel corso della notte ascoltando ciò che aveva ascoltato.

Avvisò tutti che era pronto per la partenza. 
Chiamò i servi e ordinò la carrozza.
Poi cominciò a muoversi ripetutamente avanti e indietro, nel corridoio, davanti alla porta della sua camera: aspettava, irrequieto.
Trascorse qualche minuto e finalmente l'attesa si sciolse: dalla camera uscì una bambina.
Avrà auto sei anni.
La faccia sprizzava allegria.
Si guardò in giro, ancora incredula per essere lì dov'era, a corte e circondata da tutta la famiglia reale che subito le si era avvicinata.
La bambina, anche se per nulla intimorita, cercò subito con lo sguardo il Principe: che le sorrise e le diede la mano, traendola a sé per condurla alla carrozza che era già pronta nel cortile.
A parte il Gran Maestro, che naturalmente aveva avuto una ruolo attivo nel far succedere ciò che stava succedendo, nessuno capì il senso della situazione. 

Il Principe e la bambina salirono in carrozza.
Il Re e la Regina li salutarono, sempre attoniti e frastornati, chiedendo con ansia al Gran Maestro dove sarebbero andati.
«Ma chi è quella bambina?».
«Cercavate un farmaco per il Principe?» rispose il Gran Maestro.
«Ve l'ho portato. Ora dovete solo aspettare».

Il Principe era eccitato, pensando alla destinazione.
La bambina era serena e felice per l'avventura che le era improvvisamente capitata. 
«Ma davvero hai il segreto perché il bersaglio venga perfettamente centrato?», era la domanda che più volte il Principe le ripeteva.
Lei sospirava, tranquillizzandolo: ogni volta paziente, guardandolo con comprensione e benevolenza.
«Mi sono impegnata. E per me gli impegni sono cose serie.».
«Sì, hai ragione, scusami. Ma continuo a chiedertelo perché mi sembra impossibile. E poi, non un arciere con anni di esperienza, ma una bambina di pochi anni come te... Sì, insomma, ammettilo, non è facile da credere...» 
«Siamo in viaggio proprio per questo, no? E io non fuggo: starò sempre con te. Domattina saremo al mio villaggio. Andremo in uno degli spiazzi, davanti al bosco, in cui di solito mi diverto tirando con l'arco. Tu dovrai solo 'vedere'. Mi raccomando: 'vedere'. Se non ti limiterai a 'guardare', ne sono sicura, capirai». 

Il viaggio sembrava non finire mai.
Il principe, quella notte, dormì pochissimo. 
Aveva dato ordine ai vetturini di minimizzare i tempi delle soste, giusto per far riposare e cambiare i cavalli, e di proseguire a oltranza, senza pernottamenti in albergo.
Quando il chiarore dell'alba entrò nella carrozza, una leggera luce carezzò la fronte della bambina: che continuava a riposare profondamente, cullata dal trotto degli animali e per nulla disturbata dai sobbalzi della strada. 

Poi giunse il momento tanto atteso dal Principe. 
Erano sullo spiazzo davanti agli alberi in direzione dei quali la bambina era solita tirare le sue frecce. 
Ai suoi piedi, l'arco. 
«Allora, fammi vedere.» 
Il Principe voleva essere gentile, ma l'abitudine perversa a pretendere e a non curarsi dell'altro aveva trasformato l'invito in un comando: la sua solita fretta, unita al vizio per cui tutto il mondo doveva sempre ruotare ai suoi ordini. Per spegnere l'asprezza del tono, cercò di recuperare facendo seguire alle parole un sorriso sincero e una carezza affettuosa, appena accennata, sul viso della bambina. 
Lei si mostrò comprensiva. Con un tono da piccola mammina commentò:
«Lo so, sei in ansia. Ma devi avere pazienza. Rilassarti. E osservare con attenzione tutto ciò che farò. Promettimelo.»
Il Principe annuì. 

Quella bambina gli trasmetteva serenità, equilibrio, armonia. Ma anche forza, energia, vitalità.
'Sentiva' che con lei si 'sentiva bene': e non gli era mai accaduto, finora. 
Non solo. Per la prima volta, da lei accettava di poter 'imparare'. Sì, chi l'avrebbe mai detto? Davanti ai suoi teneri sei anni, lui, il Principe, si ritrovava nella disposizione d'animo 'giusta' dell'allievo. Di chi ammette di non sapere e vuole sapere. Quello stato in cui il Gran Maestro gli aveva sempre rimproverato di non essere mai stato capace di 'entrare'.

Concentrò il suo sguardo sulla bambina, deciso a non perdersi un fotogramma dei suoi movimenti.
«Allora sei pronto, Principe?»
La bambina stava per iniziare la sua prova: irradiava calma, stabilità, fiducia.
Sorrideva.
Poi, con il ditino alzato e con un tono scherzoso come per prendere in giro il suo fare da 'maestrina', aggiunse:
«Non dimenticare: aprire gli occhi, ma soprattutto sentire il cuore. Con gli occhi si guarda, con il cuore si vede. E' così che si va 'oltre'. Ed è lì, 'oltre', che c'è tutto.» 

Iniziò.
Aprì le braccia, la faccia in direzione dei raggi del sole. 
Aspirò ed espirò con lentezza. Più volte. 
Poi eseguì alcune movenze di danza. 
Come al rallentatore, con gli occhi chiusi e un sorriso intenso: come le salisse naturale dal cuore per allargarsi a tutto il viso. 
Quindi si sedette, immobile e sempre con gli occhi chiusi, nella posizione del loto. 
Sembrava assente: e invece era più presente che mai. 
Trascorsero almeno cinque minuti. 
Quando riaprì gli occhi, sempre lentamente si alzò. 
Raccolse l'arco da terra. 
Lo accarezzò a lungo, mettendoselo sul cuore. 
Incoccò una freccia.
Lasciò andare la corda.
La freccia sibilò e cadde a una decina di metri, ai piedi di un grande albero dalla corteccia dura e spessa di anni.
La bambina non sembrò contrariata. 
Fece un lungo sospiro. 
Sorrise, guardando il Principe: 
«Capita. L'arco mi deve aver parlato, ma io non l'ho sentito. E la freccia era senz'anima.»
Il Principe chiese alla bambina cosa volesse dire, ma lei, sia pure con dolcezza, lo zittì segnandosi le labbra con il dito. 
Poi aggiunse in tono di tiepido rimprovero: 
«Ricordati, hai promesso. 'Vedere'... Cerca solo di 'vedere'».
Lui annuì, ma non resistette: era la domanda che aveva in gola dall'inizio: 
«D'accordo, starò zitto. Però scusa, fammi dire: non vedo il bersaglio. A cosa stai tirando?»
Lei lo rassicurò con una risata squillante e cristallina: 
«Lo vedrai».
Poi, sempre con calma, andò a raccogliere la freccia per riusarla nel secondo tiro.

Tornò esattamente nel punto di prima. 
E ripeté il rituale: braccia aperte in direzione del sole, passi di danza, aspirazione ed espirazione, posizione del loto. 
Quando si rialzò, raccolse l'arco da terra: sempre dopo averlo accarezzato a lungo ed esserselo lasciato sul cuore per qualche minuto, lo imbracciò. 
Incoccò la freccia. 
Rilasciò la corda. 
Un sibilo. 
La freccia si conficcò perfettamente al centro del tronco dell'albero accanto a quello che prima era stato completamente mancato. 
La bambina scosse la testa: non era soddisfatta.
Ma non perse il suo dolce sorriso interiore.
Si avvicinò al bosco per raccogliere la freccia e commentò che tutto si sarebbe compiuto nel terzo tiro.

«Ora è il momento del bagno nel fiume» gridò al Principe correndo verso la sponda.
La giornata era tiepida, il sole giocava con le foglie delle piante, l'acqua invitava.
La bambina si tolse i vestiti e si buttò nel punto più profondo di una grande pozza. 
Si distese supina, facendosi cullare da un leggero moto ondoso. 
Era in uno stato di unione perfetta con la natura.
Quando uscì dall'acqua grondava, raggiante. 
Non aveva asciugamani e si sdraiò nell'erba, nel punto più assolato.
Il Principe obbediva: osservava, silenzioso, e teneva a freno la sua impazienza.

Passò almeno un'ora. 
Poi, la bambina, con decisione, si alzò e si rivestì. 
Tornò nell'area da cui era solita lanciare le sue frecce. 
Guardò il Principe e gli annunciò che quella sarebbe stata l'ultima prova. 
Ripeté il rituale, senza mancare un passaggio. 
Sembrava ancora più concentrata delle volte precedenti: le mosse apparivano ancora più rallentate, il suo respiro sembrava ancora più intenso. 
Quando raccolse l'arco da terra, lo carezzò a lungo e lo tenne sul cuore per un tempo che non finiva mai. 
Infine tese la corda. 
Rimase ferma con la corda tirata per almeno mezzo minuto. 
L'occhio era fisso in un punto del bosco. 
Mirava al terzo albero. 
Lasciò scoccare la freccia. 

Il suo viso si illuminò.
Gli occhi sfavillarono.
Il corpo traboccava di felicità.
Alzò le braccia al cielo, come per sfogare la gioia: la sua figura di bambina, già bella, divenne ancora più bella.
Corse all'albero cui aveva mirato. 
La freccia era casualmente illuminata da un raggio di sole: luccicava, come fosse viva, ancora tremolante, infissa in profondità nella corteccia. 
Non era proprio al centro del tronco, ma di lato: pochi centimetri e l'albero sarebbe stato appena sfiorato. E la freccia sarebbe finita per terra, nel sottobosco.
In termini di risultato, il suo secondo tiro era stato perfetto.
Ma era questo terzo tiro che aveva inondato la bambina di beatitudine.

Fu solo allora che la bambina fece cenno al Principe di avvicinarsi all'albero. 
Poi armeggiò nel giubbotto. 
Prima tirò fuori un cerchio forato: e lo calò sulla freccia in modo che questa risultasse perfettamente al centro. 
Poi estrasse un pennarello: con cui disegnò con cura millimetrica la circonferenza del cerchio. 
Infine rimise tutto nella tasca. 

Sul tronco la freccia aveva smesso di oscillare. 
Ora era immobile, al centro perfetto di un bersaglio.

La bambina guardò il Principe, pienamente appagata. 
«Stavolta il mio cuore ha sentito. La freccia aveva anima. Io ho vibrato. Quando raggiungi questo, hai raggiunto lo scopo. Io, questo, lo chiamo bersaglio. Bersaglio centrato».

*** Massimo Ferrario, L'arco e il bersaglio, inedito, 2016, per Mixtura - Rielaborazione creativa di un'idea contenuta in una famosa favola antica, di autore sconosciuto.


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