mercoledì 14 settembre 2022

#SPILLI / Pensieri sul voto prima del voto (Massimo Ferrario)

Immagino che interessi poco e comunque pochi: se non  quei quattro lettori che mi sono più affezionati. Chiedendo quindi scusa a tutti gli altri, mi rivolgo ai ‘4-amici-4‘ che mi seguono. 

Qualcuno mi ha posto la domanda, esplicita, su 'se' e 'chi/cosa' voterò il 25 settembre. 
Ecco la mia risposta: non brevissima, perché credo necessiti di un'articolazione che la spieghi e la faccia essere, specie in chi un po' mi conosce, meno 'sorprendente' di quanto potrebbe apparire.

Intanto. 

Ci sono due cose di cui sono sempre più convinto. La prima è che a furia di scegliere il meno peggio si produce il peggio. I fatti, se li vogliamo vedere almeno a partire da una certa ottica (la mia e quella di chi politicamente mi 'assomiglia'), dimostrano, per me in modo lampante, questa asserzione. Siamo al peggio: un peggio di cui dovremmo ritenerci responsabili/colpevoli tutti noi. Perché io persevero, forse anche qui fuori mood come mi capita su quasi tutto, nel pensare che ogni Paese, nonostante che fattori plurimi e condizioni varie e di vario peso sempre concorrano a produrre i risultati che si producono, ha la politica (e i politici) che si merita. 

Certo, i compromessi sono cosa 'buona e giusta'. E necessaria: vivere è fare compromessi. In ogni campo. Anche in cabina elettorale. Perché l'ideale, per definizione, non c'è: esiste la realtà, cui in qualche modo bisogna adattarsi. Ma è altrettanto vero che c'è compromesso e compromesso e quando i compromessi sono sempre al ribasso (sempre 'più' al ribasso), si finisce ‘in basso’ al punto tale che ci si avvicina al fondo. A me pare che il presente lo insegni. Se l'ideale è oggettivamente e tecnicamente impossibile da raggiungere, perché esiste solo nel mondo astratto, lo si può però (lo si dovrebbe) 'approssimare': ma se lo si perde, per giunta senza neppure più sapere cos'è un ideale, si trasforma la realtà nell'obiettivo da perseguire, senza neppure accorgersi quando la realtà puzza e si renderebbe indispensabile tentare almeno di costruirne un'altra.

Però. 
E veniamo alla seconda convinzione. 

La frase che ho sopra richiamato ('a furia del meno peggio, si arriva al peggio') è semplicistica. Perché non tutti i peggio sono uguali: c'è meno peggio e meno peggio. E non votare, al di là del fatto che per me, a 76 anni in arrivo a giorni, romperebbe una 'coazione a ripetere' introiettata a 18 anni e finora mai trasgredita, è ancora peggio che votare violentando la mano perché metta comunque una croce. E' infatti anche grazie all'astensionismo (sottolineo: non 'solo', ma 'anche'), per quanto comprensibile e addirittura giustificabile in questi ultimi anni siano il ritiro e il rifiuto degli elettori, che nel peggio del peggio siamo ormai dentro fino al collo: in attesa di un peggio, domani, ancora peggiore. Un fenomeno, questo del non-voto, che grida tutta la patologia di un sistema che continuiamo a chiamare democratico anche se il 'demos', ogni anno che passa, 'se ne va via' in quantità maggiore: disgustato o, ancor peggio, indifferente. Gli dedichiamo due colonne in cronaca ad ogni elezione, rammaricandoci del fenomeno (in passato, qualche 'opinionista' malato di amerikanismo si era addirittura rallegrato: sarebbe un indice di civiltà democratica, a guardare gli Usa. E infatti...) e poi tutto dimenticato: concentriamo l'analisi, e i litigi, di vittorie e sconfitte sulle percentuali dei soli votanti. Fino a che arriveremo a discutere di chi vince e chi perde con percentuali di votanti che saranno meno della metà degli aventi diritto. Una fine terrificante per una democrazia. Ma ci siamo vicini.

Dunque. 

Sì, voterò. Nonostante tutto. Con uno sforzo mai così faticoso e dopo un sospiro che dice tutto lo sconforto di cui sono pieni i polmoni (per non parlare di altri organi del corpo, simbolo di incazzatura). Sono convinto che non votare 'significa' (indicativo presente, nessun dubbio da congiuntivo) credere di poter godere di una non-complicità che non può esistere: perché, volenti o nolenti, votanti o non votanti, siamo comunque responsabili di quanto avviene. Rimanere a casa ci illude: ci fa credere di 'stare fuori'. Ma si è dentro anche tirandosi fuori. E nessuna innocenza è possibile.

Fatto il primo passo, arriva il secondo: ancora più difficile. 
Votare, ok: ma per chi e cosa?

Naturalmente le considerazioni che seguono valgono per me e per tutti quelli (e non sono pochi come sembra) che più o meno la pensano come me. Cioè per chi ancora, testardamente, insiste nel definirsi di sinistra, in un tempo in cui la sinistra  - organizzata, politicamente impegnata, con obiettivi chiari e condivisi su temi sociali ed economici e non solo focalizzati sui diritti civili - non c'è più. Quello che si agita a sinistra e vuole darsi una configurazione politica, dichiarandosi di sinistra, è litigiosamente e perennemente frammentato: ad ogni elezione si presenta con l'ultima sigla, in concorrenza con altre 'sigline' e 'siglette', in genere frutto dell'ultima personalizzazione dell'ultimo personaggino che dice di voler cambiare il mondo ed è convinto di essere il più puro dei puri della sinistra più pura, e poi dura lo spazio dell'elezione. Già il giorno dopo, tutto riscompare. Non solo 'non si cambia il mondo', ma neppure si arriva a fare la cosa preziosa (sempre più preziosa) che consiste in una seria, convinta, concreta 'testimonianza attiva.' Facendo opposizione. E magari sviluppando in parallelo, sul piano teorico (la teoria è il migliore strumento per la pratica), idee adatte al nuovo secolo, che tuttavia non tradiscano l'ispirazione di fondo che rende sinistra la sinistra. Costruendo così per il domani e non pensando solo all'oggi. Senza farsi prendere dal demone del 'governismo', che magari, in nome di uno strumentale e vantaggioso senso di 'responsabilità', ti porta al governo anche quando hai perso. E' così che è stata uccisa qualunque speranza di alternativa, anche minima, al presente, offrendo solo potere in forma di poltrone e affari: la politichetta più sconcia al posto di qualunque anche lontana parvenza di Politica.

E allora? 
La mia scelta, già abbozzata un mese fa, subito dopo la (per me troppo tardiva) presentazione a Draghi della lettera in 9 punti di Conte (sprezzantemente rimandata al mittente dal Migliore dei Migliori) vuole essere una firma su quella 'lettera-agenda sociale' che Conte appunto si è intestato. 
Voterò quindi lui, Conte. Più che i 5Stelle. 
I 5 Stelle li ho sempre anche violentemente criticati. Per impostazione generale (‘né di destra né di sinistra’). Per superficialità e pressapochismo nella linea anti-sistema. Per i contenuti ‘opportunistici’, ‘casuali’ e, al di delle ‘5 stelle’ dichiarate come campo di riferimento strategico (peraltro modificate nel tempo, ma inizialmente: acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività), poco raccordati da una visione logica complessiva di futuro (la teorizzazione di un ‘contratto’ da proporre al miglior offerente, non importa se di destra o di sinistra  al posto di un ‘programma’ autonomo la cui realizzazione non può che esigere attori specifici, ispirati da una visione comune). Per gli stili di comportamento populistico-demagogici (‘uno vale uno’, le riunioni in ‘streaming’, i ‘portavoce’, la ‘democrazia diretta’, il ‘vincolo di mandato’). Non ho mai 'digerito' neppure il tanto decantato comico-fondatore. Mi convinceva poco già nel suo ruolo di teatrante, quando mi capitava di assistere ai suoi spettacoli in cui esibiva i suoi ossessivi attacchi 'nel mucchio' al mondo intero, capaci di titillare la rabbia facile e di lasciare sulle bocche un sorriso amaro e impotente: una sorta di qualunquismo distillato con la grande abilità tecnica di un guitto, ma, almeno a palati come il mio, stucchevole e fastidioso.
Non sarò l'unico che da sinistra, non avendo mai votato 5 Stelle ed essendo stato anzi duramente critico con loro, questa volta mette una croce su questo ‘partito’: i 5 Stelle di allora non ci sono più. Chiusa la fase grillina (anche se Grillo, come proprietario del simbolo e garante formale della linea politica, resta una ‘presenza assente’ inquietante), oggi una nuova guida, con un nuovo statuto, dichiara nuovi obiettivi e un nuovo approccio: meno ‘movimentista’, più organizzato, meglio finalizzato, forse anche finalmente più radicato sul territorio. Altri elettori di sinistra stanno facendo il mio stesso ragionamento e si accingono a compiere la mia stessa scelta. E questa è la ragione per cui la crescita nei sondaggi del nuovo partito di Conte, trascinata dall'uscita dal governo e dalla 'virata' sul sociale, in solitaria rispetto a tutti gli altri partiti che si ammucchiano al  centro, poteva non venire prevista solo dalla malafede dei media unificati, felici di confondere, interessatamente, la realtà con il loro 'wishful thinking' anti-5stelle. 

Intendiamoci: ciò non significa che io creda che Conte (verso il quale mi è capitato di esprimere già in altre occasioni ogni mia perplessità per i suoi comportamenti passati, trasformistici e opportunistici, che lo hanno fatto trasmigrare in una notte dal Conte1 al Conte2) sia diventato di sinistra. Penso solo che, dopo una storia di Grillo, dei 5 Stelle e di Conte stesso assai discutibile e per molti aspetti censurabile (molte ombre, ma anche alcune luci che hanno spinto il sistema a cambiare: e anche per questo oggi spira il vento impetuoso e incontrastabile della Grande Restaurazione Reazionaria), forse si stanno creando le premesse per un ri-posizionamento in qualche modo 'progressista'. 
Certo, a mio avviso, questa è una possibilità non scontata e tutta da verificare. Ma è un potenziale attribuibile, oggi, ai 5Stelle guidati da Conte più di quanto non sia per talune 'foglie di fico' (Fratoianni, Civati e altri) che hanno deciso di allearsi/integrarsi con e dentro quell’ex-centrosinistra ormai diventato Pd, convintamente e fermamente stabilitosi al centro, o per micro-cespugli di volonterosi alla De Magistris e compagni, che, in aureo isolamento, neppure raggiungeranno, more solito, il quorum per entrare in parlamento.

Questa mia valutazione di voto è più che opinabile, ovviamente. 
Del resto, non solo in Italia, è sempre più difficile analizzare, capire, orientarsi, scegliere: il trasformismo, unito alla volatilità di pensieri, proposte, decisioni, piani/programmi, obiettivi e perfino principi e valori, è la cifra che caratterizza da anni i nostri anni. Ed è questo che fa capire solo 'dopo' gli errori commessi. 
Ciò che ancora si può fare, almeno per chi ha vissuto 'stagioni politicamente appassionate', nel caso di una elezione tanto critica e difficile come quella che ci attende, è tentare di 'contenere' il sentimento, acuto e bruciante, della disillusione, spesso mescolato con quello della rabbia o della resa: risvegliare quel minimo di voglia di impegno, frutto di un'educazione introiettata negli anni, che ha caratterizzato tempi migliori e decidere di andare al seggio con una scelta 'pensata': realistica, ma non interamente disancorata (direi 'svaccata') rispetto agli ideali, testardi, ai quali non si vuole rinunciare.

Mettere una croce in cabina elettorale è il minimo della partecipazione: se manca questa, è finita davvero. 

*** Massimo Ferrario, Pensieri sul voto prima del voto, per 'Mixtura'


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