Non sopportavo i due chili di inserti pubblicitari che dovevo buttar via dalla edizione domenicale del New York Times e l’invito standard di tutti i camerieri in tutti i ristoranti e in tutte le caffetterie a «Enjoy it», a godere, qualunque cosa fosse quell’it. Sotto Natale alla normale cacofonia della città si aggiunse il suono della banale canzoncina "Jingle Bells": per le strade, nei negozi, negli ascensori.
Dopo una lunga camminata ero entrato in una libreria, ma non riuscii a starci che pochi minuti. "Jingle Bells" mi perseguitava. Anche lì soffiava, pioveva da ogni soffitto, aleggiava in ogni angolo: Jingle Bells... Jingle Bells. Insopportabile, ossessivo. Uscii di corsa e, sul marciapiede, c’era un uomo infreddolito, che, appena riparato da un telo di plastica appeso al suo barroccino, vendeva hot dog.
«Dov’è la prossima stazione della metropolitana?» gli chiesi.
«Alla fine di questo blocco, a sinistra.»
Dall’accento capii che era uno di quei miei cari ebrei russi coi quali anni prima, scrivendo "Buonanotte, signor Lenin", avevo tanto discusso e riso e bevuto tè nell’Asia centrale.
«Spassiba», risposi.
Mi guardò come fossi un’apparizione. Con un calore che non avevo sentito in tutta la giornata, quasi titubante, ribatté:
«Pagialsta».
E, come rincuorati da un qualche riconoscerci, col sorriso sulle labbra, continuammo le nostre ugualmente strane vite in quel campo profughi, quella fornace umana, quel porto di salvezza, quel gulag dall’ottimo cibo che per tutti e due era New York.
*** Tiziano TERZANI, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004, in facebook, 25 dicembre 2019, qui
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