C’era una volta un bambino.
Il suo papà lavorava sempre e non aveva mai un minuto di tempo.
Né per sé. Né per la mamma. Né per lui.
Il bambino era curioso e aveva chiesto in giro ai suoi compagni, perché questa cosa gli sembrava strana. Aveva così scoperto che il caso del suo papà non era solo del suo papà. Certo, c’erano anche molti papà che avrebbero pagato per avere un lavoro, perché tanti erano disoccupati e non sapevano come fare a dare da mangiare alle loro famiglie. Ma altri, molti altri, che si credevano fortunati, avevano un lavoro che li faceva così contenti che non se ne staccavano mai. Erano sempre al computer. E al telefono. Arrivavano a lavorare anche dieci ore al giorno e si dimenticavano pure di mangiare.
Era una delle tante contraddizioni del mondo dei grandi che un bambino fatica a capire: non si sa perché ci sono, ma ci sono. Ma forse gli adulti sanno benissimo perché ci sono e non le vogliono risolvere.
Il bambino aveva saputo che c’è un parola per definire questi papà che non hanno mai tempo per nulla se non per il lavoro. Gliel’aveva riferita in gran segreto un ragazzo più grande che andava alle medie e si dava le arie di quello che sa sempre tutto. Erano ‘sbronzi’, gli aveva detto. ‘Sbronzi di lavoro’.
La definizione l’aveva trovata azzeccata, ma non lo consolava. E sapere che il male poteva essere comune non gli procurava nessun gaudio, né intero né mezzo. Per lui almeno, il proverbio della nonna non funzionava.
Lui restava triste. Sempre più triste. Perché doveva giocare da solo: e ogni volta che cercava il papà, il papà non c’era.
La mamma gli spiegava: «Il papà non può giocare. Deve lavorare.»
Il papà gli spiegava: «Anch’io gioco. Solo che il mio gioco è il lavoro.»
Sia la mamma che il papà gli promettevano sempre: «Domenica prossima, vedrai, papà giocherà con te.» Però domenica prossima era sempre la prossima.
Così il bambino imparò, dalla mamma, che il lavoro non è un gioco e, dal papà, che il suo gioco era il lavoro. Imparò dunque che i grandi parlano senza capire ciò che dicono e promettono senza mantenere.
Infine ripensò a quando, per farlo smettere di giocare, papà e mamma gli dicevano che ‘ogni bel gioco dura poco’ e si convinse che il gioco del papà, che non finiva mai, doveva essere proprio un brutto gioco.
O forse, più probabilmente, si disse che non era un gioco. Perché un gioco che non finisce mai, lo capiva anche un bambino, non è un gioco. E i grandi, se chiamano lavoro un lavoro che non ti lascia mai giocare, da soli o con un bambino, hanno preso per cosa sana una malattia.
E questo è grave. Perché è così che non si guarisce.
E quando tu, che sei piccolo, capisci ciò che gli adulti, che pure sono adulti, dovrebbero capire e non capiscono, e cioè che ci sono adulti che non si rendono conto, o non vogliono rendersi conto, di essere malati, ti viene voglia di non diventare grande.
*** Massimo FERRARIO, Il papà è sempre sbronzo, libera riscrittura di una ‘favolina’ di MasFerrario, ‘Mixtura’ (‘masferrario.blogspot.com’), 11 ottobre 2018
In Mixtura ark #Favole&Racconti di M. Ferrario qui
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