Non ricordo esattamente cosa avevo fatto. Però ricordo con precisione quello che mi disse mia nonna. Ero piccolo e passavo molto tempo con lei, perché mia mamma lavorava tutto il giorno. Mia nonna, sempre sorridente, quella volta divenne seria. Con dolcezza, ma con fermezza, mi ripeté due volte il suo rimprovero: «Questo non devi farlo più. Ricordati: assolutamente non devi farlo più. Hai capito?».
Io chiesi: «Ma perché?».
Lei rispose: «Perché non sta bene».
Io insistetti: «Ma perché non sta bene?».
«Non sta bene perché non è bello».
«Non è bello a vedersi?».
Lei rifletté un attimo: «Anche».
Io non mi accontentai di quell'anche. «Hai detto 'anche'. E poi, perché non è bello?».
Trascorsero parecchi secondi. Mia nonna probabilmente stava valutando se farmi un ‘discorso da grandi’. Avrebbe potuto chiudere il dialogo come si fa spesso con i piccoli: è così perché è così. Ma lei credeva che tutto si può, e si deve, spiegare. E che i bambini, se spinti a capire, capiscono.
«Perché non è bello per chi si comporta così: non è bello per te, in questo caso. Devi sapere una cosa importante: sia che gli altri ci vedano, sia che gli altri non ci vedano, quando noi ci comportiamo male, ci facciamo male. Perché rompiamo la bellezza che noi siamo. Ognuno di noi, dentro se stesso, è bello. Noi tutti, all’origine, siamo belli. E dobbiamo rispettare questa bellezza che abbiamo. Che noi siamo».
Io rimasi silenzioso. Non avevo mai pensato al fatto che potesse esistere una bellezza dentro ognuno di noi. «Ma come facciamo ad accorgerci che dentro siamo belli?».
Mia nonna sorrise. «Te l'ho detto. Quando facciamo qualcosa che non dovremmo fare, ci accorgiamo che abbiamo rotto l’armonia che sta dentro di noi. E abbiamo perso almeno un pezzo di bellezza. Che poi, però, dobbiamo, e possiamo, ricostituire. Per esempio non facendo più quello che abbiamo fatto».
Io rimasi zitto per un po': rimuginavo.
«Non ti convince, vero?»
«No, nonna. È che io, facendo quello per cui tu adesso mi stai rimproverando, non mi sono accorto di rompere questa bellezza di cui tu parli».
« Perché non senti ancora la voce che ti può mettere in guardia».
«Una voce? Quale voce, nonna?».
«Quella che pian piano si forma in ognuno di noi. E ci fa diventare adulti. Possibilmente ‘buoni e belli’. Io, per esempio, in questo momento, dicendoti ciò che ti sto dicendo, sto aiutando questa tua voce a crescere dentro di te. E a farsi sentire. Così non avrai più bisogno di me. Ti basterà ascoltarla. E lei ti aiuterà a decidere come comportarti. E a sgridarti, al posto mio, quando io non ci sarò più, se ti sarai comportato male. In modo che la prossima volta tu sia invogliato a comportarti meglio».
Mia nonna mi scrutava in silenzio, con sguardo benevolo e affettuoso. Intuiva che il mio cervellino era in movimento: magari non avrei capito tutto quella volta. Ma intanto aveva lanciato un seme.
Dopo qualche minuto le feci l’ultima domanda: «Ma ha un nome questa voce?».
«Certo. Si chiama coscienza. Ed è quella cosa che rende umani gli umani. Quando ce ne dimentichiamo perdiamo umanità. Al punto che possiamo diventare disumani».
Mia nonna è morta da almeno vent’anni. Per sua fortuna. Perché oggi continuerebbe a essere capita dai bambini, ma verrebbe certamente irrisa dagli adulti.
A me quella volta iniziò a insegnare (perché le cose cruciali della vita non si finisce mai di insegnarle e non si finisce mai di apprenderle) la fondamentale corrispondenza tra ‘etica’ e ‘estetica’: il ‘kalòs-kai-agatzòs’ dei Greci.
Mia nonna non aveva una laurea in filosofia. Aveva la terza elementare, era figlia di nn, era stata trovata sulla ruota di un convento ed era stata allevata in una famiglia di contadini insieme ad almeno una decina tra fratellini e sorelline.
*** Massimo Ferrario, 1946, L’etica della nonna, 'Mixtura' (masferrario.blogspot.com), 30 luglio 2023
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