Scrive Viktor Frankl, 1905-1997, psichiatra austriaco, fondatore della 'logoterapia', internato ad Auschwitz, Dachau e altri campi di sterminio e sopravvissuto anche grazie alla forza espressa dalla sua visione ottimistica sulla vita, autore di numerosi saggi, tra cui il famoso L'uomo in cerca di senso: uno psicologo nei lager, 1967-2017:
«Proviamo a immaginare un giocatore che, posto di fronte a un problema scacchistico, non trovi la soluzione. Cosa fa a quel punto? Rovescia i pezzi della scacchiera. È una soluzione al suo problema? Certamente no. Ma è proprio così che agisce il suicida: getta via la sua vita pensando di aver condotto a soluzione un problema che gli appariva insolubile. Non sa che in tal modo non rispetta le regole del gioco della vita, proprio come lo scacchista del nostro paragone non si attiene alle regole del suo gioco, all'interno delle quali un problema si risolve con un salto del cavallo, un arrocco o in qualche altro modo, ma comunque con una mossa, non certo con il comportamento descritto. Ora, anche il suicida viola le regole del gioco della vita; queste regole non ci richiedono di vincere a tutti i costi, ma ci richiedono di non abbandonare la partita.» (Viktor Frankl, Sul senso della vita, Conferenza 1^, Significato e valore della vita, 1946, [2019], Mondadori, 2020, pp. 38, traduzione di Elena Sciarra).
Massimo rispetto per la competenza, l'autorevolezza e la terribile esperienza di vita di Viktor Frankl.
Ma altrettanto rispetto, io credo, è dovuto a chi si trova nel drammatico stato di chi medita il suicidio per un insopportabile dolore esistenziale e decide alla fine di passare all'atto perché ritiene di non avere altra scelta.
"Regole della vita", dice Frankl. Ma quali regole? E chi le stabilisce?
Se è Dio che le ha fissate, questo non riguarda chi è ateo. Ma non riguarda neppure chi è credente e non ce la fa più a vivere, perché se sta rifiutando la vita nessuna regola di vita lo può interessare. E comunque, se esistono 'regole della vita' (con l'iniziale minuscola, per evitare confusioni con il trascendente che vale solo per chi accetta il trascendente), nessuno ha stabilito, regole o non regole, che sia obbligatorio giocare il gioco della vita.
L'esempio degli scacchi è del tutto fuori centro: il suicida non rovescia i pezzi della scacchiera. Semplicemente non ha (più) nessun interesse a giocare, non vuole ottenere nulla, si limita ad andarsene. E così come nessuno può imporre a nessuno di giocare a scacchi, nessuno può imporre a nessuno il gioco della vita.
Peraltro, non è certo il messaggio doveristico, di per sé intrinsecamente minaccioso e persecutorio, per cui ci sono regole che impediscono l'abbandono di partita, che può convincere chi vuole smettere e lasciare la partita a continuare a stare al banco e giocare.
Ho sempre pensato che una delle poche cose nella vita che richiedono silenzio assoluto, quando si verificano, per la inspiegabilità profonda e misteriosa che circonda il singolo e specifico atto di chi ne è soggetto più o meno consapevole, sia il suicidio.
Mi piacerebbe che tutti, anche i più illustri 'esperti' di umanità, quando toccano certi temi stessero in posizione rispettosamente 'china': rigorosamente attenti a non proferire parola. E meno che meno sentenze.
Perché, in questo caso, ogni parola è violenza.
*** Massimo Ferrario, Il suicidio, gli scacchi, il silenzio, per 'Mixtura',
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