TRE
Ci siamo dunque sbarazzati del mantra della concretezza in ambito organizzativo?
Naturalmente no. Durante un laboratorio formativo tenutosi una diecina d’anni fa abbiamo “provocato” una vera e propria competizione sulla Leadership fra persone provenienti da diverse aziende. Alla fine i vincitori (votati come tali da tutti gli altri partecipanti) furono due. E alla domanda cosa li rendeva così apprezzabili le risposte furono sempre due (una la chiave di successo dell’uno e l’altra la chiave di successo dell’altro): La Concretezza e la Passione. Dunque la Concretezza continua a far parlare di se, anche nella leadership. Ma almeno ci siamo resi conto che da sola non basta.
E, secondo chi scrive, non basta neanche la passione (in combinazione con la concretezza o in essenza singola) per risolvere i problemi di lungo termine delle nostre aziende.
In ogni caso questa necessità di poter toccare con mano, di stare con i piedi ben piantati per terra, di poter dimostrare risultati tangibili fa parte della ordinary life organizzativa.
Dura la vita per gli “intangibili”. Ovvero quegli elementi “soft” e, almeno all’apparenza, così poco concreti di cui andremo a parlare ora.
QUATTRO
La teoria che stiamo per associare (con un’evidente scatto di megalomania) alle onde gravitazionali einsteniane è quella secondo cui l’ARTE potrebbe essere “l’ultima Thule” per rigenerare il sistema economico-produttivo del nostro paese.
Ma andiamo con ordine.
Non credo sia necessario spendere molte parole per dimostrare che le nostre aziende, piccole e grandi, pubbliche e private, fanno una maledetta fatica ad andare avanti.
Si dirà “la crisi internazionale…Lehman& Brothers…la globalizzazione…l’instabilità sociale e politica…”
D’accordo. E, all’interno di questo scenario c’è chi galleggia, chi affonda e chi prospera.
Quante aziende italiane nel 2007 (annus horribilis per l’imprenditoria mondiale) hanno venduto più di 100 milioni di nuovi prodotti entrando per la prima volta in mercati a loro sconosciuti, assumendo migliaia di nuovi lavoratori, aprendo negozi fisici (cioè non virtuali) in tutto il mondo e sono ancora qui nel 2016 senza segni di arretramento?
Ve lo dico io: neanche una.
E prima ancora, quando la crisi non erano gli impiegati di Lehman & Brothers che si allontanavano mesti dai loro uffici con gli scatoloni in mano, ma era ancor più tangibile nelle macerie fisiche dell’immediato periodo post-bellico… Quanti ebbero il coraggio di investire sulla loro azienda andando ad assumere centinaia di nuovi lavoratori contro il parere della dirigenza (che veniva d’amblè sostituita…) ? Quanti si sarebbero affidati allora all’inventiva di un ingegnere cinese (ora si direbbe un extracomunitario) per immaginare il futuro mercato dell’informatica globale? Quanti avrebbero detto (e praticato) che la fabbrica doveva essere anche “bella” e che l’azienda doveva occuparsi anche di architettura, urbanistica, assistenza sociale, arte, cultura?
I due esempi cui ho fatto riferimento erano, per chi non lo avesse già intuito, la Apple di Steve Jobs e l’Olivetti di Adriano Olivetti. Periodi storici diversi ma diverse analogie.
Due perle rare che andrebbero (e in parte già lo sono) studiate attentamente.
Ne parleremo più tardi.
Torniamo alle aziende non guidate dagli Olivetti e dai Jobs, ovvero la quasi totalità.
All’accendersi dei semafori rossi della crisi costoro hanno scelto tutt’altra strategia .Hanno lanciato programmi di “efficientamento”, avviato piani di ridimensionamento degli organici, tagliato quasi a zero gli investimenti in ricerca e formazione.
Risultato: solo negli ultimi 6 anni (fonte il Sole 24 ore) oltre 75.000 fallimenti fra cui marchi storici come Richard Ginori, Mariella Burani, Moto Morini. Nel 2015 più di 50 imprese fallite ogni giorno. Italia al top tra i paesi Ocse: +66% rispetto al 2009.
Insomma l’applicazione del pensiero intuitivo (c’è la crisi dunque taglio dei costi, taglio degli organici, esternalizzazione attività non “core”, “lean organization” and so on) non solo non ha consentito di “tenere le posizioni”. Sembra quasi abbia accelerato le procedure fallimentari.
Invece, un po’ di anni fa, a chi segnalava “Non c'è una sola ragione per la quale qualcuno dovrebbe volere un computer in casa propria (Ken Olsen, fondatore di Digital Equipment Corporation, 1977) qualcuno si apprestava pochi anni dopo a dimostrare il contrario.
Vogliamo chiamarlo intanto (in assenza di una definizione migliore) pensiero controintuitivo?
Il pensiero controintuitivo ci interessa da vicino in questa dissertazione, non perché ci azzecchi sempre. Ma perché sfugge agli automatismi del pensiero tradizionale.
Perché segnala un’interruzione rispetto agli schematismi cui siamo abituati. Insomma “think different” avrebbe detto il vecchio Steve. E qual è quella disciplina, (e non soltanto, si badi bene, quella singola persona particolarmente dotata…) che pratica abitualmente questa interruzione o perlomeno la coltiva, ci prova? E che si segnala al mondo quando questa interruzione diventa improvvisamente visibile?
L’Arte, signori miei, l’Arte.
CINQUE
I tagli sulla tela di Fontana non piacciono a tutti. Ma qui noi non vogliamo parlare esclusivamente di bellezza in senso classico (ammesso che sulla Gioconda si sia proprio tutti d’accordo…).
Qui si sta parlando di “…aprire una porta dove prima c’era un muro” come direbbe Chuck Close (un pittore iperrealista americano paralizzato dalla vita in giù).
L’arte, in particolare quella che comunemente definiamo “arte contemporanea”, fa esattamente questo. Spiazza l’interlocutore, crea un’interruzione, lavora con l’inaspettato.
Ci interessa questo approccio alla realtà? Interessa alle aziende?
Per intanto accontentiamoci di un’altra saggia citazione del grande Einstein “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”.
E andiamo avanti.
Per inciso, sempre in omaggio a questo bisogno di concretezza che ci affligge, val la pena di ricordare che la storia dell’Olivetti di Adriano e della Apple di Jobs hanno concretamente in comune proprio l’incrocio col mondo dell’Arte.
Olivetti decise di andare per le spicce: assunse direttamente dentro un’azienda che faceva macchine da scrivere letterati come Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni.
Jobs si è “accontentato” di ispirare i suoi ingegneri facendo studiare loro la Testa di Toro di Picasso come modello di minimalismo ed essenzialità progettuale.
Gli incroci possibili col mondo dell’Arte sono in realtà molti di più. Ma almeno questi hanno funzionato e ne possiamo parlare per la gioia dei “concretisti”. Ma agli inizi? Quanti ci avrebbero scommesso un soldo bucato?
SEI
Suggerisco di ascoltare con attenzione la Piano Sonata n.32 in C minor, Op.111:2.Arietta
(1822) di Ludwig Van Beethoven. A metà della composizione c’è un prepotente cambio di registro (un’interruzione…) che a un orecchio musicale preparato segnala il passaggio dalla musica classica al jazz (più precisamente al ragtime).
E il jazz avrebbe visto la luce solo agli albori del 900. 70 anni circa di anticipo.
Il grande compositore ci suggerisce che il futuro è già disponibile nel presente. Si tratta solo di andare a scovarlo. Facile solo se ti chiami Beethoven, direte voi. No, non fu facile neanche per lui se considerate che era completamente sordo dal 1815.
Un’altra interruzione.
Ma è importante sapere che il futuro possiamo individuarlo già oggi. Resta solo da capire quale e come. E da accettare il prezzo che dovremo pagare. Tentativi, prove, fallimenti, dubbi, incertezze e i contemporanei che pretendono concretezza subito.
“E’ la ricerca, bellezza” se mi consentite di parafrasare Humprey Bogart.
“ Se sapessimo (esattamente) quel che stiamo facendo, non si chiamerebbe ricerca” (sempre Einstein)
SETTE
Dunque ci resta ancora di capire “come fare”, attraverso l’arte, ad esplorare in anticipo il futuro (o almeno uno dei tanti possibili futuri…) dell’Organizzazione.
Abbiamo già visto due strade diverse. Una, quella di Adriano, porta a mescolare artisti e tecnici facendoli lavorare in contiguità. E forse non è un caso che la Lettera 22 sia tutt’ora esposta al Moma di New York come icona del design industriale italiano.
L’altra (quella di Jobs) prende ispirazione dall’arte.
Come avrebbe fatto più tardi qui da noi (e facciamo volutamente un salto di settore) Gualtiero Marchesi con il piatto rappresentato qui sopra deliberatamente ispirato a Jackson Pollock.
A chi non l’avesse ancora provato dirò subito che è squisito. E parlandone con Marchesi ho scoperto la sua seconda fonte di ispirazione (dopo Pollock) è poetica :
“Il poeta esiste realmente proprio in quanto ha una sua direzione, segue una sua traiettoria come l’unica via possibile, disperato perché costretto ad appropriarsi del mondo intero, colpevole per l’arroganza del volerlo definire”(Ingeborg Bachmann)
C’è una terza strada, tentata da alcuni, che consiste nel tentativo di trasformare managers e professionals in artisti. Ad esempio facendo loro prendere in mano una matita o un pennello. Oppure facendo riscoprire la manualità necessaria per plasmare una scultura.
Non mi sento di escludere a priori nessuna delle strade suggerite.
Ma il mio percorso (che è diverso da tutti quelli fino ad ora indicati) si inserisce nel filone della cosiddetta “Arte Relazionale” e si riassume nel modello de “L’Impresa come Opera d’Arte": un laboratorio formativo ormai più volte sperimentato.
Più che di un concetto qui si sta parlando di un costrutto. Prima bisogna farne esperienza. E poi parlare delle possibili applicazioni in ambito aziendale.
Che saranno più d’una anche in funzione delle diverse culture organizzative incontrate.
Vi lascio sempre col vecchio Einstein: "Se i fatti e la teoria non concordano, cambia i fatti."
*** Massimiliano CACCAMO, consulente e formatore, responsabile di ComeNetwork, Il paradosso della concretezza in ambito organizzativo e formativo - parte 2^, per Mixtura
La prima parte di questo articolo, sempre in Mixtura, la trovate qui.
Per una spiegazione del modello de L'Impresa come Opera d'Are, vedi in Mixtura qui