martedì 31 maggio 2016
#LINK / Riscaldamento globale, riguarda già miliardi di persone (Laurie Penny)
Dimostrare che il riscaldamento globale è reale sta diventando meno urgente di fronte alla necessità di alleviare la sofferenza umana che sta causando. In Rajasthan, nell’India nordoccidentale, la colonnina di mercurio ha toccato 51 gradi, la temperatura più elevata mai registrata nel paese. Gli ospedali sono pieni di persone colpite da infarto o disidratazione. I raccolti seccano nei campi. Un cammello rimasto al sole è impazzito e ha staccato la testa del padrone a morsi. Questo per darvi un’idea di quanto fa caldo in Rajasthan. (...)
*** Laurie PENNY, giornalista statunitense, Il riscaldamento globale riguarda già miliardi di persone, 'internazionale.it', 27 maggio 2016
LINK articolo integrale qui
#SGUARDI POIETICI / La Bambina dei libri (Vladimiro Forlese)
Di te non so il nome
né con esattezza gli anni.
Ti ho conosciuta solo in foto
uno scatto tra tanti, veloce
come una raffica di mitraglia
perché a Gaza, tra le macerie, la vita
è un filo da cogliere al volo,
prima che si spezzi.
Esile, nel tuo vestitino verde
che a dispetto del nero delle bombe
illumina della luce che hai in cuore
l’incarnato e gli occhi,
quel tuo visetto di bambina
senza infanzia, senza giovinezza,
stupito solo di essere scampata.
Chissà quali labbra domani
baceranno i tuoi capelli. Chissà
se dalla crisalide nascerà all’amore
la donna farfalla. Chi può dirlo?
A Gaza la storia non eredita gli anni
ma un tempo che reputa fortuna
vivere da un sole a un sole.
Oh bambina dei libri
la sorte ti ha portato oltre il mare
in case dove si muore di vecchiaia
e il possesso fa dei nostri cuori pietre.
Le tue mani strette ai sillabari
più di ogni fucile annienteranno
la protervia che nega le tue primavere,
l’ottusa indifferenza dai nostri petti.
né con esattezza gli anni.
Ti ho conosciuta solo in foto
uno scatto tra tanti, veloce
come una raffica di mitraglia
perché a Gaza, tra le macerie, la vita
è un filo da cogliere al volo,
prima che si spezzi.
Esile, nel tuo vestitino verde
che a dispetto del nero delle bombe
illumina della luce che hai in cuore
l’incarnato e gli occhi,
quel tuo visetto di bambina
senza infanzia, senza giovinezza,
stupito solo di essere scampata.
Chissà quali labbra domani
baceranno i tuoi capelli. Chissà
se dalla crisalide nascerà all’amore
la donna farfalla. Chi può dirlo?
A Gaza la storia non eredita gli anni
ma un tempo che reputa fortuna
vivere da un sole a un sole.
Oh bambina dei libri
la sorte ti ha portato oltre il mare
in case dove si muore di vecchiaia
e il possesso fa dei nostri cuori pietre.
Le tue mani strette ai sillabari
più di ogni fucile annienteranno
la protervia che nega le tue primavere,
l’ottusa indifferenza dai nostri petti.
*** Vladimiro FORLESE, 1952, sindacalista e poeta, La Bambina dei libri, ‘sagarana’, n. 57, ottobre 2014, qui
Gaza, storia di una ladra di libri tra le macerie
Rainews, luglio 2014, qui
#MOSQUITO / Controllo, il prezzo (Marco Lodoli)
(...) Ognuno di noi deve diventare semplicemente ciò che è, sviluppare la propria natura, che sarà giusta e armoniosa se non la costringiamo a seguire strade già asfaltate e senza via d’uscita. In fondo la gente si divide tra chi pianifica ogni dettaglio, perché non si fida, perché vede ovunque minacce o sprechi, perché pretende che come una freccia ogni secondo va puntato al bersaglio, e chi lascia che tutto sia, perché sa che c’è un destino più grande che ci abbraccia, un respiro assoluto dove ogni nostro colpo di tosse si iscrive perfettamente. (...)
Perciò non bisogna affaticarsi a vuoto, caricarsi di chissà quali responsabilità: Let it be, e andrà tutto bene. Purtroppo non è sempre così, ormai l’abbiamo capito, spesso chi pianifica il lavoro, le vacanze, il futuro ottiene risultati migliori rispetto a chi si abbandona alla corrente.
Però il prezzo che paga chi tiene tutto sotto controllo è altissimo, lo sforzo per anticipare ogni sorpresa, per proteggersi dalle incognite si traduce in un malumore costante, in trepidazioni e ulcere. Ricordo quando da bambino mi recavo al catechismo, in una chiesa buia e severa dove mi venivano spiegati i comandamenti e i peccati, dove veniva malinconicamente esaltata la buona volontà che ara e semina e raccoglie. Ebbene, quasi davanti alla chiesa c’era una sorta di cratere e laggiù una casetta abitata dagli zingari e anche una stalla: gli zingari facevano girare dei cavalli bianchi, li cavalcavano senza sella, ride-vano e fumavano, e a me sembravano le persone più serene del mondo, per nulla preoccupate del do-mani, senza compiti da svolgere, senza regole cui obbedire. Ognuno di loro era ‘docile fibra dell’universo’, come scrive Ungaretti, ognuno obbediva a un ritmo più profondo di quello dettato dalla volontà e dall’ambizione. Credo di essere stato l’unico bambino italiano che sognava di essere rapito dagli zingari, perché volevo tanto essere felice.
*** Marco LODOLI, 1956, scrittore, giornalista, insegnante, La piccola lezione dei grandi fatalisti dall’Oriente a Diderot, ‘la Repubblica’, 26 maggio 2012
https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Lodoli
#LINK / Masturbazione, 8 cose da sapere (Mona Chalabi)
Come saprete, maggio è il mese internazionale della masturbazione. Ora, prima di pensare che questo articolo sia il frutto di una strategia di marketing dei fabbricanti di sex toys che hanno scelto maggio semplicemente per l’iniziale, vi assicuro che il vostro cinismo è fuori luogo: l’argomento mi interessa da molto prima che quel comunicato stampa atterrasse nella mia casella di posta.
Sono anni che mi sento chiedere cos’è normale in materia di masturbazione: quando è troppo? Quanto deve durare? Chi si masturba di più, gli uomini o le donne? Sul come e sul perché ci tocchiamo esistono montagne di dati. Ecco otto cose da sapere. (...)
*** Mona CHALABI, giornalista, Otto cose da sapere sulla masturbazione, 'internazionale.it', 23 maggio 2016
LINK articolo integrale qui
lunedì 30 maggio 2016
#CIT / Privatizzare l'acqua (Erri De Luca)
#NATURA MORTA / Javier Mulio, Sara Qualey, Henk Helmantel
Javier MULIO
(via pinterest)
° ° °
Sara QUALEY
artista statunitense
(saraqualey.blogspot.com, via pinterest)
° ° °
Henk HELMANTEL, 1945
pittore olandese
(via pinterest)
In Mixtura altri 2 contributi di javier Mulio qui
#VIGNETTE / Vincino, Altan
VINCINO
Chi vota no, 'Il Fatto Quotidiano', 29 maggio 2016
° ° °
ALTAN
Incubi, 'L'Espresso', 27 maggio 2016
#SGUARDI POIETICI / Sono una donna felice (Alessandro Baricco)
Sono una donna felice,
come lo dovrebbe essere
qualunque donna
al riverbero di questa età luminosa.
Ho debolezze eleganti,
e cicatrici charmantes.
Non ho più illusioni sulla nobiltà
delle persone,
e per questo so apprezzare
la loro inestimabile arte
di convivere con le proprie
imperfezioni.
Sono clemente,
alla fine,
con me stessa e con gli altri.
Così sono pronta ad invecchiare,
ripromettendomi di farlo
negli eccessi e nelle sciocchezze.
Se l’età adulta
ti ha dato quello che volevi,
la vecchiaia
dev’essere una sorta
di seconda infanzia
in cui torni a giocare,
e non c’è più nessuno
che ti può dire di smettere.
come lo dovrebbe essere
qualunque donna
al riverbero di questa età luminosa.
Ho debolezze eleganti,
e cicatrici charmantes.
Non ho più illusioni sulla nobiltà
delle persone,
e per questo so apprezzare
la loro inestimabile arte
di convivere con le proprie
imperfezioni.
Sono clemente,
alla fine,
con me stessa e con gli altri.
Così sono pronta ad invecchiare,
ripromettendomi di farlo
negli eccessi e nelle sciocchezze.
Se l’età adulta
ti ha dato quello che volevi,
la vecchiaia
dev’essere una sorta
di seconda infanzia
in cui torni a giocare,
e non c’è più nessuno
che ti può dire di smettere.
*** Alessandro BARICCO, 1958, scrittore, saggista, critico musicale, conduttore televisivo, sceneggiatore e regista,da Questa storia, Feltrinelli, 2014.
Testo più volte riportato in rete, anche in 'facebook', 'nuovi poeti', 24 maggio 2016, qui
#LINK / Tecnostress, in Francia vietate le email extralavoro (Enzo Di Frenna)
In Francia i lavoratori sono meno esposti al rischio tecnostress: infatti è entrata in vigore una legge che impone di non usare le email aziendali in orario extralavoro. Ma come stanno veramente le cose? È una buona legge? E in Italia chi difende i lavoratori dal rischio tecnostress e dalla email addiction? La questione è controversa. Mi occupo di rischi nel lavoro digitale da oltre quindici anni, ho progettato in Italia i primi corsi per la prevenzione del rischio tecnostress, ai sensi del Decreto legislativo 81-2008, ed insegno ai lavoratori e ai manager a difendersi dalle troppe email, troppa connessione internet, troppo tempo trascorso con il cellulare, il pc, il tablet e i social network. Vi posso assicurare: una legge non è in grado di ridurre il rischio information overload, cioè il sovraccarico informativo cerebrale di cui ha parlato per la prima volta il ricercatore americano Saul Wurman. (...)
*** Enzo DI FRENNA, giornalista, presidente di Netdipendenza onlus, Tecnostress, in Francia una legge vieta le email extralavoro. E in Italia?, 'ilfattoquotidiano.it', 26 maggio 2016
LINK articolo integrale qui
#SENZA_TAGLI / Montatura d'arte (Massimo Gramellini)
A molti sarà capitato di perdersi nella contemplazione di un capolavoro contemporaneo senza riuscire a comprenderlo appieno. Le targhette posizionate accanto all’opera forniscono spiegazioni che aiutano poco, perché scritte in una lingua da riforme costituzionali: immaginifica e oscura. Solo pochi eletti hanno la lucidità di evadere da questo stato di prostrazione con uno scatto di sana follia. È il caso dell’adolescente californiano TJ Khayatan, che al museo d’arte moderna di San Francisco stava rischiando di andare in trance da appisolamento (inteso sia come siesta, sia come isolamento per guardare le app del telefonino) quando ha avuto l’illuminazione. Si è tolto gli occhiali e li ha appoggiati per terra. Poi, benché privo di lenti, è stato a vedere.
Mai attesa fu più breve: nugoli di visitatori si sono precipitati a fotografare l’installazione, degna erede della Buzzicona, la moglie monumentale di Alberto Sordi che si addormentava su una seggiola della Biennale e veniva scambiata per opera d’avanguardia. L’occhialuto TJ avrà pensato che nulla come l’esposizione di certa arte moderna racconta il conformismo degli esseri umani. Quel loro fingere di avere capito tutto anche quando non hanno capito niente. Nemmeno che non c’è niente da capire.
*** Massimo GRAMELLINI, giornalista, scrittore, Montatura d'arte, 'La Stampa', 27 maggio 2016, qui
In Mixtura altri 17 contributi di massimo Gramellini qui
#VIDEO / Taoismo, la forza della flessibilità (Alain De Botton)
Con il taoismo impariamo la forza della flessibilità
Alain De BOTTON
'internazioanle.it', 27 maggio 2016
video 5min12
Il wu wei è un importante precetto del taoismo che non ha nulla a che fare con l’apatia, ma “significa essere in pace mentre si è impegnati nei compiti più frenetici in modo da poterli svolgere al massimo della capacità e dell’efficenza”, scrive Alain de Botton.
La cosa migliore è non essere rigidi e inflessibili, saper aspettare le mosse degli altri e adattarsi alle situazioni. “L’idea di ottenere gli effetti più grandi attraverso una saggia passività strategica è stata centrale nella concezione cinese della politica, della diplomazia e degli affari”.
Alain de Botton è uno scrittore, filosofo e conduttore televisivo.
Ha fondato The school of life.
Si occupa di cultura e storia del pensiero sottolineando il loro valore per la vita quotidiana.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’arte come terapia. The school of life, Guanda, 2013
(dalla presentazione)
In Mixtura altri 24 contributi di Alain De Botton qui
#LINK / Manager, modelli internazionali (Enrico Verga)
Il fenomeno dei manager stranieri è già familiare alle grandi aziende italiane. Gli acquisti cinesi negli ultimi tempi in Italia sono andati aumentando come testimonia Il Sole 24 Ore. Data la realtà industriale italiana il fenomeno è in crescita e si possono delineare, sulla base dello sviluppo economico mondiale, alcuni “casi” di manager stranieri che i manager italiano dovranno confrontare.
*** Enrico VERGA, 1976, consulente strategico e istituzionale, Leader del mondo a confronto. Modelli manageriali e strutture gerarchiche secondo cultura, 'senzafiltro', 25 maggio 2016
LINK articolo integrale qui
In Mixtura 1 altro contributo di Enrico Verga qui
domenica 29 maggio 2016
#SPILLI / Marò, e gli onori militari? (M. Ferrario)
Due ministri (Roberta Pinotti, Difesa, e Paolo Gentiloni, Esteri) si sono recati a ricevere il marò Salvatore Girone all'arrivo all'aeroporto di Ciampino.
Sono mancati il presidente del Consiglio e gli onori militari.
E per fortuna (sembra, speriamo) che è stata smentita l'idea (pare di Renzi, ovviamente) di far partecipare i due fucilieri alle celebrazioni della Repubblica del 2 giugno.
Vorrei banalmente ricordare che i due marò, quando è avvenuto il fatto, non erano in missione internazionale, ma a bordo di una nave privata in servizio privato di sicurezza: non sono eroi, ma semplicemente imputati in un processo in cui sono accusati di aver ucciso due disgraziati pescatori indiani scambiati per pirati.
Fino a sentenza passata in giudicato sono, ovviamente, innocenti.
Ma forse maggiore sobrietà sarebbe più appropriata.
Almeno per uno Stato che voglia essere serio.
Ma è appunto qui che sta il problema.
*** Massimo Ferrario, Marò, e gli onori militari?, per Mixtura
#SGUARDI POIETICI / La preghiera dell'alba (José Emilio Pacheco)
Fa miracoli questo albeggiare.
Scrive la sua pagina di luce
sul quaderno scuro della notte.
Annulla la nostra disperazione,
assolve la nostra follia,
accerta che il mondo
non si è dissolto nelle tenebre
come abbiamo temuto
a partire da quella sera in cui,
da una caverna della preistoria,
osservammo per la prima volta il crepuscolo.
Ieri non resuscita.
Quello che è dietro non conta.
Quel che vivemmo già non è più
L’alba ci consegna la prima ora
la prima ora di un’altra vita.
La sola nostra verità
è il giorno che comincia.
Scrive la sua pagina di luce
sul quaderno scuro della notte.
Annulla la nostra disperazione,
assolve la nostra follia,
accerta che il mondo
non si è dissolto nelle tenebre
come abbiamo temuto
a partire da quella sera in cui,
da una caverna della preistoria,
osservammo per la prima volta il crepuscolo.
Ieri non resuscita.
Quello che è dietro non conta.
Quel che vivemmo già non è più
L’alba ci consegna la prima ora
la prima ora di un’altra vita.
La sola nostra verità
è il giorno che comincia.
*** José Emilio PACHECO, 1939-2014, poeta, scrittore, traduttore messicano, La preghiera dell'alba, da L’età delle tenebre, 2009.
Anche in 'il canto delle sirene', 23 maggio 2016, qui
#SENZA_TAGLI / Pensiero, diffuso (Chiara Bottini)
Stanotte mi sono dedicata ad un’attività mortalmente seria: pensare di testa. Non ridete, la questione è complessa. Ci sono diversi modi di pensare e non tutti coinvolgono il cervello.
Si può pensare con la nuca, ad esempio. Quando le immagini che vedi scorrono a scatti come il panno nei distributori metallici di alcuni cessi. Il pensiero di nuca, generalmente, riguarda memorie superficiali, non per forza recenti, una riproduzione casuale che ti consente di continuare a lavare i piatti o a parlare durante una conferenza. Non crea ansia e non ti fa perdere la concentrazione. Si può attenuare col passaggio di una mano. Non ne afferro l’utilità e non la stimo, diciamo che me la ritrovo in dotazione e, ogni tanto, la uso.
Si può pensare con i polsi. I polsi pensano aggressivo: ti ricordano ferite e bruciature, tempi di attesa, impossibilità di muoverti, cambi di direzione e tutto quello che vorresti distruggere in fretta o fissare per sempre. Ti parlano del piacere e della morte, del sangue che scivola via aldilà di te, dentro, che si getta chissà dove, chissà in chi, chissà perché. Il polso è un pensatore che non ama distrazioni, non ama essere interrotto, deve finire di dirti la sua, altrimenti non sa procedere, non sa tornare ad articolarsi.
Mi si disarticola, il polso. È imbarazzante.
Si può pensare con la pancia. La pancia non racconta poiché è priva di linguaggio e di cognizioni. Al massimo ti lascia intuire, ti getta nella disperazione di aver capito, ma non sai cosa. Risveglia il panico e la felicità. Ha una connessione diretta con le mani che manovrano cellulari e genitali. È un pensiero bambino, sfaldato, incoerente, di una bellezza mozzafiato, di una tristezza muta, sono stanze dentro stanze e vuoti dentro pieni.
Poi c’è la testa. Io non lo so spiegare, ma ho pensato questo: mi hanno spesso trovata con le gambe sul tavolino, la birra stappata, il sorriso pulito, la portiera aperta, la lingua sulle labbra, la battuta in canna, le orecchie tese, i muscoli pronti, la schiena nuda, la nuca spenta, i polsi spenti, la pancia spenta, io accesa e nessuna particolare rottura di coglioni da proporre, ma non mi pare m’abbiano mai detto grazie per questo.
*** Chiara BOTTINI (quello che non vedi), project manager, blogger, social media specialist, formatrice, scrittrice, Il pensiero diffuso, 'medium', 28 maggio 2016, qui
In Mixtura altri 13 contributi di Chiara Bottini qui
#VIDEO / Rifugiati ed europei, 4 minuti negli occhi (Amnesty International)
Rifugiati ed europei: 4 minuti negli occhi
L'esperimento di Amnesty International
corriere tv, 25 maggio 2016
video 5min00
Quattro minuti di contatto visivo portano due persone a legare tra loro più di qualsiasi altra cosa.
Amnesty International Polonia ha realizzato un esperimento basandosi sulla nota tesi elaborata nel 1997 dallo psicologo Arthur Aron.
Nella clip, alcuni profughi arrivati recentemente dalla Somalia e dalla Siria si incontrano per la prima volta con alcuni europei del Belgio, dell'Italia, della Germania, della Polonia e del Regno Unito in un magazzino nei pressi del Checkpoint Charlie, il famoso posto di blocco tra le due Berlino durante la Guerra fredda.
Si siedono uno di fronte all'altro e poi aprono gli occhi.
«Ci vuole un cuore di pietra per non commuoversi guardando questo video» dice Draginja Nadazdin, direttore di Amnesty International Polonia (YouTube/Amnesty Poland)
sabato 28 maggio 2016
#SPOT / Smartphone e altro, 6 immagini (Jean Jullien)
Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
° ° °
Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
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Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
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Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
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Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
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Jean JULLIEN, 1983
artista grafico francese residente a Londra
In Mixtura 1 altro contributo di Jean Jullien qui
#VIGNETTE / Altan, Biani
Mauro BIANI
E questo cos'è?, 'il manifesto', 27 maggio 2016
° ° °
ALTAN
Per me è uguale, 'la Repubblica', 27 maggio 2016
° ° °
Mauro BIANI
Commozione, 'il manifesto', 28 maggio 2016
#SPOT / Bambini, frustrazione e serenità (Elisabetta Rossini, Elena Urso)
° ° °
Elisabetta ROSSINI, Elena URSO
In Mixtura altri contributi di Elisabetta Rossini e Elena Urso qui
#GIF / Ma potrebbe non essere solo una GIF
Facebook, 28 maggio 2016
Per vedere il movimento,
cliccare in alto su 'f' di facebook
oppure sul link qui sotto
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#SPILLI / Meglio di niente, una (ovvia) sciocchezza (M. Ferrario)
Si ripete sempre, per giustificare chi preferisce l'azione al pensiero, che qualcosa è meglio di niente.
È una sciocchezza.
Perché qualcosa può essere peggio di niente.
E allora niente è meglio.
Naturalmente questo non ci esime dal tentare di fare.
A patto però che si voglia, e si riesca, a fare qualcosa che non sia soltanto meglio di niente. Ma proprio meglio.
Meglio di quello che c'è.
Se no ci si può vantare di aver fatto anche cose orride.
Come è il caso dell'orrida riforma costituzionale.
Fatta con i piedi da improvvisati (autonominati) costituzionalisti: che, credendosi nuovi salvatori della patria, ogni giorno insultano chi non li applaude e non si fa zerbino al loro mono (mini-pseudo) pensiero imperante.
*** Massimo Ferrario, Meglio di niente, una (ovvia) sciocchezza, 'facebook', 27 maggio 2016
Neo-costituzionalisti autonominati
#FAVOLE & RACCONTI / Capelli d'Angelo e il Gigante Verde (M. Ferrario)
Il sole stava calando.
Tutto il villaggio, steso sulla cima di una vasta collina pianeggiante che dominava la vallata, era cintato da mura alte fortificate.
Dalla torretta principale un uomo, armato di lancia, guardò in basso. Era giovane, alto, una barba rossiccia, un bel volto solare: vide il carretto, con le poche masserizie accatastate, e due bambini che dormivano abbracciati in un angolo del cassone.
La ragazza era scesa, guardandosi in giro. Evidentemente stupita, si chiedeva come mai il portone principale di accesso al paese fosse chiuso. Alzò gli occhi e notò il guardiano sulla torretta. Gli fece cenno che voleva entrare.
I bambini, sul carro, si erano svegliati.
La piccola aveva cominciato a piangere: non vedendo la ragazza, scesa per dialogare con l'uomo sulla torretta, temeva di essere stata abbandonata. Il grande la stava abbracciando per calmarla, promettendole che presto avrebbero mangiato e poi finalmente avrebbero passato tutta una notte fermi, senza i sobbalzi del viaggio.
La ragazza non si arrese.
Si presentò all'ingresso, lasciando inchiavardate le grandi ante e aprendo solo la porticina che serviva a consentire il passaggio di una persona per volta.
Cercò di comunicare con il volto disponibilità all'ascolto, anche se con la lancia era attento a mantenere ostruito il passaggio.
La guardia fu colpita dal tono dignitoso che aveva accompagnato la richiesta, pur pressante, di aiuto.
Si passò una mano sulla barba, come per trovare ispirazione. O semplicemente per ritardare anche solo di qualche secondo il momento in cui avrebbe dovuto ridire ciò che aveva già detto. Gli ordini erano chiari: nessuno poteva violare la cinta del paese. Da una settimana a questa parte, poi, con il pericolo che tutti sapevano, i comandi erano stati ancora più perentori.
La ragazza aveva gli occhi fissi in quelli dell'uomo: era in ansia, in attesa di una risposta.
Capelli d'Angelo si sentì le gambe abbracciate: la sorellina aveva lasciato la mano del fratello e cercava di farsi prendere in braccio. Ambedue erano scesi dal carro per capire cosa sarebbe accaduto.
Il fratello aveva sentito le ultime parole della guardia, ma chiese ugualmente alla sorella:
Capelli d'Angelo sarebbe saltata al collo dell'uomo per la gioia, ma si trattenne.
Corse sul carro, incitando i fratellini a fare altrettanto.
Il carretto si fermò a due passi dalla grande porta ferrata.
Il cavallo, sudato per la salita e affaticato per il lungo viaggio, si arrestò da solo senza che la ragazza tirasse le redini. Nitrì, scrollò la criniera, scalciò: anche lui si considerava finalmente arrivato a destinazione.
Tutto il villaggio, steso sulla cima di una vasta collina pianeggiante che dominava la vallata, era cintato da mura alte fortificate.
Dalla torretta principale un uomo, armato di lancia, guardò in basso. Era giovane, alto, una barba rossiccia, un bel volto solare: vide il carretto, con le poche masserizie accatastate, e due bambini che dormivano abbracciati in un angolo del cassone.
La ragazza era scesa, guardandosi in giro. Evidentemente stupita, si chiedeva come mai il portone principale di accesso al paese fosse chiuso. Alzò gli occhi e notò il guardiano sulla torretta. Gli fece cenno che voleva entrare.
L'uomo, ruvido ma cortese, gli urlò che non poteva.
«Non ammettiamo forestieri. Accettiamo solo chi può dimostrare di conoscere qualcuno che risiede in paese. E per visite brevi. Tu chi sei? Sei parente o amica di qualche compaesano?».
La ragazza scosse il capo, desolata.
«No. Non conosco nessuno».
«E allora niente. Mi spiace, ma sono le nostre leggi.»
I bambini, sul carro, si erano svegliati.
La piccola aveva cominciato a piangere: non vedendo la ragazza, scesa per dialogare con l'uomo sulla torretta, temeva di essere stata abbandonata. Il grande la stava abbracciando per calmarla, promettendole che presto avrebbero mangiato e poi finalmente avrebbero passato tutta una notte fermi, senza i sobbalzi del viaggio.
La ragazza non si arrese.
«Vi chiedo solo un minuto: se scendete e venite qui alla porta, vi spiego tutto. Non mi piace urlare e amo parlare guardando in faccia chi ho di fronte».
La guardia, anche perché un po' incuriosita, decise che in fondo non gli costava nulla ascoltare la ragazza e acconsentì.
«D'accordo, scendo».
«D'accordo, scendo».
Si presentò all'ingresso, lasciando inchiavardate le grandi ante e aprendo solo la porticina che serviva a consentire il passaggio di una persona per volta.
Cercò di comunicare con il volto disponibilità all'ascolto, anche se con la lancia era attento a mantenere ostruito il passaggio.
La ragazza sorrise e lo ringraziò.
Poi, con voce concitata, gli raccontò tutto.
«Vedete, io e i miei fratellini veniamo da tre giorni di cammino: abbiamo ancora qualche provvista, ma stiamo esaurendo il cibo che ci siamo portati. Fateci accampare in qualunque parte del vostro paese. Non disturberemo. Io so fare di tutto: coltivare, cucinare, fare le pulizie, accudire animali, assistere bambini, badare ai vecchi. Non mi pesa lavorare. Nostra madre è morta mettendo al mondo la mia sorellina. E nostro padre si è ucciso tre giorni fa cadendo dall'alto di un casolare, mentre lavorava per il padrone di una fattoria, nell'altra vallata in cui abitavamo. Speravo che anche per questo il padrone avrebbe avuto compassione: ero disposta a sostituire mio padre in qualunque attività. Ma lui ha detto che non voleva ragazzine tra i piedi. Per questo abbiamo deciso di partire: solo io ora posso mantenere i mie fratelli.»
La guardia fu colpita dal tono dignitoso che aveva accompagnato la richiesta, pur pressante, di aiuto.
Si passò una mano sulla barba, come per trovare ispirazione. O semplicemente per ritardare anche solo di qualche secondo il momento in cui avrebbe dovuto ridire ciò che aveva già detto. Gli ordini erano chiari: nessuno poteva violare la cinta del paese. Da una settimana a questa parte, poi, con il pericolo che tutti sapevano, i comandi erano stati ancora più perentori.
Prese tempo.
«Siete coraggiosa a girare da sola, in zone disabitate, tra l'altro con due bimbi così piccoli. Il pericolo di essere assaliti da malintenzionati è grande. E poi, in quest'ultimo periodo...»
Non finì la frase: come avesse timore di dire altro.
«Come vi chiamate?».
«Mi chiamano Capelli d'Angelo. Ora non li vedete, sotto il cappellaccio, i miei capelli. Ed è bene che sia così, perché sono sporchi e impolverati. Ma quando li lavo e li ho sciolti, mia mamma li accarezzava e li baciava: diceva che non aveva mai visto capelli fini e belli come questi. E' lei che mi ha dato questo nome.»
«E' un bel nome».
La ragazza aveva gli occhi fissi in quelli dell'uomo: era in ansia, in attesa di una risposta.
«Allora, che dite?»
Lui spostò lo sguardo a terra.
«Vi ho già detto. Io non ho libertà di scelta: debbo eseguire. Il portone resta chiuso».
Capelli d'Angelo si sentì le gambe abbracciate: la sorellina aveva lasciato la mano del fratello e cercava di farsi prendere in braccio. Ambedue erano scesi dal carro per capire cosa sarebbe accaduto.
Il fratello aveva sentito le ultime parole della guardia, ma chiese ugualmente alla sorella:
«Non ci vogliono?».
La ragazza annuì.
«Avanti, torniamo sul carro. Stanotte dormiamo qui davanti al portone, domani riprenderemo il viaggio.».
«Sì, ma dove?», domandò il fratello.
La sorella non rispose.
La guardia rientrò dalla porticina: la chiuse a doppia mandata.
Era pensierosa: e se proprio stanotte...?
No, non poteva rischiare: non poteva prendersi questa responsabilità. Se fosse successo quello che temeva, non se lo sarebbe perdonato per tutta la vita.
Era pensierosa: e se proprio stanotte...?
No, non poteva rischiare: non poteva prendersi questa responsabilità. Se fosse successo quello che temeva, non se lo sarebbe perdonato per tutta la vita.
Il grande portone si aprì con fragore: anche questo un segno che da tempo le ante non erano abituate a girare sui cardini.
«Dentro», ordinò l'uomo, subito affacciandosi.
«Piazzate il carro in questo spiazzo, qui vicino all'entrata. Parlerò con il capo villaggio. Dirò della vostra storia. Proporrò di tenere una grande assemblea. Deciderà l'intero paese».
«Piazzate il carro in questo spiazzo, qui vicino all'entrata. Parlerò con il capo villaggio. Dirò della vostra storia. Proporrò di tenere una grande assemblea. Deciderà l'intero paese».
Capelli d'Angelo sarebbe saltata al collo dell'uomo per la gioia, ma si trattenne.
Corse sul carro, incitando i fratellini a fare altrettanto.
Il cavallo, che si stava godendo il riposo e temeva di dover già riprendere il viaggio, obbedì malvolentieri allo stimolo delle redini, ma fece i pochi passi necessari per superare la soglia della cinta. Quando capì che almeno per quella notte poteva rilassarsi, sembrò ringraziare con un piccolo nitrito.
Fu una notte di sonno pesante, ma sereno per tutti.
Quando Capelli d'Angelo si svegliò la mattina seguente il sole era già alto: non accadeva da tanto che lei dormisse così a lungo.
La ragazza scese dal carro con una pentola: aveva intravisto una fontanella e aveva bisogno di acqua per sé e i fratellini.
Accanto ad un muricciolo, in una zona ombrosa, notò un pacco. Lo aprì con circospezione: c'erano latte, formaggio, pane, verdura.
Un dono della guardia, sicuramente.
La preoccupazione, con il trascorrere del giorno, cresceva, in attesa di quanto avrebbero deliberato gli abitanti.
Nel villaggio, nella piazza centrale, era stata indetta l'assemblea per decidere le sorti di Capelli d'Angelo e dei suoi fratelli: la guardia aveva portato la notizia alla ragazza a mezzogiorno, lei aveva approfittato per ringraziarlo del pacchetto con il cibo, lui aveva finto di non saperne nulla e poi aveva anticipato che, conoscendo il suoi compaesani, non riponesse troppe speranze in una decisione favorevole. Comunque le avrebbe riferito a fine pomeriggio: ora anche lui andava a partecipare e avrebbe votato.
La ragazza non osò chiedere come avrebbe votato. Si limitò ad abbassare gli occhi e a dire che, naturalmente, avrebbe rispettato qualunque decisione: le bastava uno schiocco di frusta per far ripartire il carro.
La sera, prima del tramonto, la guardia venne a comunicare la risoluzione dell'assemblea.
«E' stato deciso che le nostre regole devono essere rispettate. Chi non è del villaggio ha abitudini e costumi diversi. Noi vogliamo che le nostre usanze non vengano messe in discussione. E se facciamo eccezione una volta, poi la regola diventa l'eccezione. Per questo abbiamo fortificato la cinta del villaggio e manteniamo il grande portone rigorosamente chiuso per tutti quelli che non conosciamo.»
Capelli d'Angelo ebbe un colpo.
Non se l'era detto, quasi per scaramanzia, ma in fondo sperava che la guardia, che aveva mostrato cuore con lei, riuscisse a convincere anche i compaesani.
Era affranta. E adesso?
«Dunque, ce ne dovremo andare...», commentò con un sospiro.
L'uomo allargò le braccia: era il volere dell'assemblea.
«Però non subito», aggiunse.
«Non subito?», si meravigliò la ragazza. «Non capisco».
L'uomo spiegò.
«E' una lunga storia, ma cercherò di essere breve. Se venite con me nella guardiola, siamo lontani dai vostri fratellini: è meglio non sentano.»
Capelli d'Angelo era incuriosita.
E poi, quell'uomo emanava uno strano fascino: avvertiva che anche lui provava per lei e i suoi piccoli una dolce simpatia.
Lo seguì.
E lui iniziò a raccontare.
«Tutto risale a due anni fa. Il villaggio non era recintato, non esistevano né mura fortificate né portoni. Vivevamo liberi e felici. Ma un giorno ci trovammo nella piazza del paese il Gigante Verde.»
La ragazza volle essere sicura di aver capito. Mica la stava prendendo in giro? Se lo fece ripetere.
«Un... Gigante? Dite davvero?»
«Lo so, c'è da non credere. Ma è così: un Gigante. Quasi tre metri d'altezza. Con una faccia mostruosa. E di colore verde: una tinta accesa, violenta, che lo rendeva disgustoso. Lo vidi anch'io e purtroppo non era un'allucinazione. Ma fatemi andare con ordine.»
Capelli d'Angelo si sedette sulla panca della portineria, obbediente e in trepidazione.
«Prometto di non interrompere più: sono tutta orecchi».
Il giovane sorrise.
«Dunque, questo Gigante pretese di parlare con il capo del villaggio. Disse che era una cosa della massima urgenza. Io ero presente, perché anche all'epoca ero uno dei consiglieri del villaggio. Il Gigante Verde disse che dovevamo subito costruire delle mura attorno al paese. Eravamo in pericolo. Il popolo dei Giganti, sparso per il mondo, era in contatto continuo uno con l'altro. E aveva segnalato che masse di uomini di pelle nera stavano abbandonando le aree che abitavano, sempre più colpite dalla siccità, alla ricerca di zone fertili, ricche di cibo. Ormai molti erano giunti nelle vallate qui vicino e presto sarebbero arrivati da noi. Loro, i Giganti, potevano aiutarci tenendo lontana questa gente, ma noi, se volevamo evitare l'invasione, dovevamo trasformare il paese in una fortezza. Unica cosa che lui, il Gigante Verde, chiedeva in cambio per la sua opera di vigilanza era che gli facessimo trovare il venerdì di ogni settimana una mucca macellata alla Pietra dell'Abisso: un punto che si trova in montagna, a un chilometro da qui, famoso per uno strapiombo di trecento metri che fa venire le vertigini anche a chi non ne soffre. Il Gigante Verde disse che viveva nei boschi lì attorno. Non chiedeva altro, però aggiunse minaccioso che non dovevamo saltare una settimana, altrimenti ce ne saremmo pentiti».
Capelli d'Angelo ogni tanto si dimenticava di respirare e ogni tanto tirava un respiro profondo: non perdeva una parola.
«E allora?».
«Discutemmo a lungo: non tutti erano d'accordo nell'accettare, ma alla fine 'quasi' tutti, compreso il capo villaggio, subirono il ricatto».
«E voi?», domandò ansiosa la ragazza.
«Io restai solo: per questo ho detto 'quasi' tutti. Cercai di convincerli, dicendo che chiudendo il villaggio saremmo finiti come in prigione. Ma non mi vollero ascoltare. Il Gigante Verde vinse mettendo paura. Nel giro di un mese, lavorando giorno e notte, costruimmo le mura lungo tutto il perimetro del paese: da quel momento il grande portone, di cui io sono unico responsabile, è stato aperto solo per lasciar passare qualche forestiero fidato per i rifornimenti di merci che noi non riusciamo a produrre.»
La guardia fece una pausa: gli pesava continuare.
«Il peggio però viene ora. Da un anno il Gigante Verde non si accontenta della carne macellata. Sfida gli uomini del villaggio. Esige che la domenica di ogni inizio del mese uno di noi si faccia trovare alla Pietra dell'Abisso per ingaggiare un duello mortale con lui. Pretende che il capovillaggio e io siamo presenti per poter raccontare poi a tutti della sua vittoria.»
L'uomo aveva ogni immagine in mente. Faticava a proseguire.
«Ma è terribile», sospirò Capelli d'Angelo.
«Dodici. Dodici persone sono morte così. E tutte nello stesso modo. Erano in piedi, ritte sulla Pietra dell'Abisso, con le spalle a cinquanta metri dallo strapiombo. Si erano esercitate per giorni a usare la spada, sembravano imbattibili finché facevano le prove qui in villaggio. Poi, lì, davanti al Gigante Verde, neppure sono riuscite a sfilare le armi dal fodero. Quando il Gigante Verde si è presentato di fronte a loro, sono rimaste bloccate, impietrite. Lui ha brandito la spada e loro hanno cominciato a indietreggiare. Lui sembrava diventare ancora più alto, mentre urlava e roteava lo spadone, e loro arretravano, con gli occhi sbarrati. Indietro, un passo dopo l'altro. E lui avanti, sempre più grande ad ogni loro passo indietro, con una risata stridula che bucava le orecchie. Finché, tutti e dodici, a furia di arretrare... Lo strapiombo...».
La guardia si coprì gli occhi con la mano, come per cancellare ciò che ancora stava vedendo.
Quindi rimase zitta per un tempo interminabile.
La ragazza provava sentimenti misti: costernazione, dolore, rabbia.
L'uomo completò il racconto.
«Ora, il Gigante Verde vuole una sfida a settimana. A partire da lunedì prossimo. Gli abbiamo risposto che quella di lunedì sarà l'ultima sfida e se ancora per disgrazia dovesse vincere, comunque non ne avrà altre. Stavolta ci siamo trovati tutti d'accordo, perché abbiamo capito che se non diciamo basta, le sue pretese, sempre più alte, finiranno per ucciderci tutti. Ma lui si è infuriato: gira per boschi e colline urlando e si aggira lungo le mura del villaggio minacciando una strage. Per questo stanotte vi ho fatto entrare. E per questo, finché il Gigante Verde non sarà ucciso, l'assemblea ha deciso che daremo ricovero a voi e ai vostri fratelli».
Capelli d'Angelo rifletteva.
Nel racconto della guardia, qualcosa in particolare l'aveva colpita. E questo, forse, era un elemento decisivo.
Ma fu distolta dal suo ragionamento quando sentì le ultime parole, sussurrate come in una confessione.
«E' arrivato il mio turno. Anche se non so come, lo sconfiggerò. Lunedì, all'alba, sarà il giorno della nostra liberazione».
La ragazza accusò un colpo alla bocca dello stomaco.
Lui voleva apparire sicuro e certo era determinato a rispettare il suo impegno.
«Ora devo andare. Mi sto esercitando con la spada da giorni. Conosco ogni mossa. Lo batterò».
Poi, il viso del giovane ebbe come una contrazione: un pensiero amaro lo aveva colpito.
Non si trattenne ed emise un sospiro.
«Come vi ho detto, la morte del Gigante coinciderà con la vostra partenza: dovrà essere eseguita la deliberazione dell'assemblea».
Era ancora buio, ma alcuni passi accanto al carro misero in allerta il cavallo, che scalciò.
Capelli d'Angelo era pronta.
La sorellina dormiva di traverso, con un piedino buttato sulla spalla del fratello. Entrambi avevano il sonno profondo: un leggero sorriso sulle labbra faceva intuire che fossero felicemente immersi nel mondo dei sogni.
La ragazza sgusciò fuori dalla coperta: si mise un giaccone pesante, indossò uno dei tanti pantaloni che usava per i lavori di fatica e si nascose i capelli sotto un velo. Senza fare rumore, scese dal carro e vide con piacere che la luna, quasi piena, illuminava la notte. Nei giorni precedenti aveva controllato con cura: e infatti nella guardiola era appeso il mazzo di chiavi di scorta. Scelse la chiave e aprì la porticina con cautela: per fortuna nessun cigolio.
Affrettò i passi e li vide subito: ringraziò il chiarore della luna, anche se il rischio di essere scoperta aumentava.
Si mantenne a distanza, misurando i passi e cercando di non fare rumore.
Il viottolo era erboso, senza sassi.
Per fortuna il capovillaggio era vecchio e camminava lentamente. Di fianco, la guardia: si era messa un elmo che luccicava alla luna e portava alla cintura due spade, imponenti.
Arrivarono alla Pietra dell'Abisso dopo un'ora abbondante di cammino: l'ultimo pezzo era stato particolarmente faticoso, perché il sentiero si impennava.
Albeggiava.
Le montagne attorno erano velate: come una leggera nebbia. Ma il sole stava alzandosi e diffondeva un rosato che riempiva l'anima. L'aria comunque era fredda: pungeva il viso e gelava le orecchie.
La guardia si dispose nel punto previsto: i piedi ben piantati, le spalle a una cinquantina di metri dall'abisso, gli occhi che guardavano avanti.
Era concentrata, i nervi tesi come una corda di violino: il mondo tutt'attorno non esisteva, c'era solo l'immagine enorme del Gigante Verde che attendeva comparisse davanti a sé.
Aspettavano tutti con il fiato sospeso.
Il capovillaggio era a pochi metri dal luogo della sfida, come sempre.
Capelli d'Angelo era nascosta al limitare del bosco, dietro un albero.
Finalmente, preceduto da sghignazzi e urla che da soli avrebbero spaventato un esercito e roteando due spadoni enormi che tagliavano l'aria, il Gigante Verde si materializzò.
Riconobbe la guardia e non si stupì. Anzi, era certo che per questa occasione, che al villaggio avevano giurato sarebbe stata l'ultima, l'avversario sarebbe stato il giovane.
«Mi spiace, guardia. Stavolta tocca a te. Hai visto gli altri dodici tuoi compaesani. Non sono neppure riusciti a sguainare la spada. Si sono dimostrati i vigliacchi che erano: sapevano solo indietreggiare. E hanno fatto la fine che meritavano. Accadrà lo stesso anche a te. E il capovillaggio tornerà a raccontare del tuo volo nello strapiombo e dovrà scegliersi un'altra guardia».
Il Gigante Verde, da quando la prima volta era sceso al villaggio per invitarli a costruire le mura, era diventato ancora più alto.
La sua statura ormai era di almeno 4 metri: una massa di carne verde spaventosa. E disgustosa. Chiunque sarebbe scappato alla sua vista: affrontarlo significava il suicidio.
Capelli d'Angelo si era immaginata di provare paura: ma questo era terrore.
La guardia restava impassibile: non indietreggiava, ma neppure avanzava. E teneva sguainate le due spade impugnandole con forza davanti a sé, come per difendersi dall'eventuale avanzata del gigante.
La situazione restò bloccata per almeno un minuto. Ma era un minuto che si misurava in ore.
Poi, il Gigante Verde fece un piccolo passo avanti.
La guardia non riuscì a stare ferma e tentò di fare mezzo passo indietro.
Ma poté solo abbozzarlo.
Perché incontrò la resistenza, ferma come un muro, di un corpo caldo, nascosto dietro le sue spalle.
Sentì una voce che gli bisbigliava, soffiandogli sul collo:
«Se arretrate, prima di voi nello strapiombo cado io: sono ad appena venti metri, poi c'è il vuoto. Forse non è una buona cosa, se volete vincere il Gigante Verde»
Il giovane tentò di voltarsi, incredulo: non poteva essere Capelli d'Angelo...
Ma la ragazza continuava a stringerlo sempre più forte da dietro.
«Sì, sono io, viva e vera: non sono un fantasma.»
Poi aggiunse:
«Però lo potrei diventare, se voi insisteste nell'indietreggiare...»
Non era il momento delle battute, ma la battuta servì.
La guardia sentì una fiammata salirgli da dentro e si ancorò a terra: ora aveva i piedi bloccati, come fissati con dei chiodi.
Il Gigante Verde fece un passo avanti: netto, deciso. Ma la guardia restò bloccata al suo posto: silenziosa, mai stata più serena e sicura di sé, nulla più avrebbe potuto farla arretrare anche solo di un centimetro.
Il corpo della ragazza aderiva perfettamente alla sua schiena: neppure uno spillo avrebbe potuto inserirsi tra loro. Sentiva i suoi muscoli, attraverso il vestito, e il seno in particolare, pigiato sotto le spalle, gli trasmetteva un calore non solo fisico.
Lui invece, il mostro verde, urlava: non capiva cosa gli stesse accadendo, ma nello stesso momento in cui il giovane era riuscito a non indietreggiare, aveva perso una trentina di centimetri di altezza.
Capelli d'Angelo ebbe conferma di quanto aveva sospettato quando aveva sentito il racconto terribile delle dodici sfide precedenti. E, sempre stando attenta a non farsi vedere, diede una piccola spinta in avanti alla guardia. Che infatti cedette alla pressione, schiodò i piedi da terra e li mosse in direzione del Gigante di una ventina di centimetri.
E il Gigante Verde smise di sghignazzare e rimpicciolì di almeno altri cinquanta centimetri.
Fu allora che Capelli d'Angelo si mostrò.
Uscì da dietro la schiena della guardia con un salto di lato: si tolse il velo e sciolse i capelli biondi, che lasciò fluire abbondanti sulle spalle.
Quindi avanzò decisa verso il Gigante Verde. E si fermò a poco più di un metro da lui.
Tutto avvenne in un attimo.
Il capovillaggio, anche per la vecchiaia, ebbe quasi un infarto per la sorpresa: si coprì la faccia per paura di vedere la ragazza fatta a pezzi dagli spadoni del mostro e iniziò a invocare dio come in un rosario.
Il Gigante Verde emise un urlo disperato proprio mentre, ancora una volta, si trovava abbassata la sua statura, ormai ridotta a poco più di due metri.
E il giovane, disperato per il gesto della ragazza che considerava un suicidio, si gettò in avanti deciso a infilzare la pancia del Gigante: superò la ragazza, si fermò fissando quasi con strafottenza gli occhi spiritati del Gigante e la nascose dietro di sé, coprendola con il suo corpo.
Capelli d'Angelo trasse un respiro di sollievo: la sfida era vinta, la guardia doveva solo completare l'ultimo piccolo tratto che la separava dal Gigante Verde.
Incitò il giovane a farlo.
Lui si sentiva una forza che avrebbe spezzato una lastra d'acciaio: nessuno più avrebbe potuto fermarlo.
Avanzò.
E vide che il mostro non era più un mostro: era diventato piccolo come un nano. Non urlava e non rideva più, solo piangeva e si lamentava.
La spada della guardia era sempre più vicina, pronta a trafiggergli il cuore.
Il piccolo essere implorava di avere salva la vita.
La guardia stava per colpirlo quando la ragazza si fece vicino: con una mano allontanò la spada del giovane e chiese al Gigante-Nano come si chiamasse.
Lui cercò di contrattare: l'avrebbe detto se non l'avessero ucciso.
Capelli d'Angelo gli rispose che ormai non poteva permettersi più nulla, neppure di contrattare.
Insistette.
«Voglio il tuo nome».
Lui aveva ormai un filo di voce e le sussurrò il nome in un orecchio.
Lei sorrise, come compiaciuta.
E disse alla guardia di risparmiarlo: ora la sua statura era giusta e la sua vita, come quella di ogni essere vivente, era importante.
Si abbassò verso il Nano, superando il disgusto di guardarlo in faccia
«Tu hai ucciso. Non si insegna a non uccidere uccidendo. E poi la tua esistenza svolge una funzione utile per tutti. Ognuno di noi serve, nella vita. Però ora, per un po', dovrai abbandonare questi posti e far vivere in pace la gente. Del resto, né qui né altrove, potrai più terrorizzare nessuno. Ti limiterai a incutere, ogni tanto, un po' di sana paura: quella che serve a farci stare all'erta tutti.»
Il ritorno in paese fu più lento dell'andata, perché il vecchio capovillaggio doveva riprendersi dallo spettacolo incredibile cui aveva assistito: la guardia gli aveva procurato un ramo nodoso che gli servisse da bastone e Capelli d'Angelo lo sosteneva nell'andatura.
Fu subito indetta un'assemblea.
Capelli d'Angelo era sul suo carro: sistemava le poche cose da portare con sé. Sapeva che avrebbe dovuto lasciare il paese e aveva preparato i fratellini per il viaggio.
Non voleva ammetterlo, ma provava una tristezza sconosciuta, così forte che sentiva male al petto.
La guardia arrivò di corsa, trafelata.
Spalancò il portone con il solito fragore di cardini.
La ragazza era già pronta ad incitare il cavallo a muoversi: era seduta a cassetta e diede il comando a voce. Aveva in mano le redini per far voltare il carro.
Il giovane si piantò davanti proprio mentre il carro stava per muovere le ruote per imboccare l'uscita.
Agitava la braccia. Gridava.
«Stop. Stop. Bloccate il carro. Tornate indietro. Non si esce.».
La ragazza non capiva.
Lui ripeteva.
«L'assemblea, l'assemblea. Ha deciso, proprio ora. Non ve ne dovete andare. Né adesso né mai.»
«Scusate, ma allora perché avete aperto il portone?».
Il giovane era un fiume in piena.
«Il portone d'ora in poi rimarrà sempre aperto. Non solo: distruggeremo le mura fortificate. Non ci saranno più porte. Torneremo a vivere come una volta e i forestieri saranno benvenuti. Io non farò più la guardia, perché non ce ne sarà più bisogno. E poi perché l'assemblea mi ha eletto capovillaggio. Infine tutti vi vogliono conoscere. Avete salvato il paese dal Gigante Verde. C'è un clima nuovo, un'atmosfera impensabile fino a poche ore fa: tutti si abbracciano, mostrano di aver fiducia in se stessi e negli altri. E, soprattutto, sembrano tornati bambini. Si prendono per mano e improvvisano tanti girotondi, ripetendo a gran voce che ormai, finalmente, non hanno più paura. E non vogliono averne mai più.».
Capelli d'Angelo volle farselo ridire:
«Dicono proprio così, che non hanno più paura?»
«Sì. Paura. E saltano contenti tenendosi in cerchio.»
La ragazza provava un tumulto aggrovigliato di sentimenti e emozioni.
In fondo non era sorpresa: ripensò alla confessione del Gigante Verde diventato Nano, quando le aveva rivelato il suo nome, e non poté non sorridere.
«Sarete contenta, immagino» incalzò la guardia diventata capovillaggio.
«Be', certo. E' tutto come una bella favola».
Il giovane annuì.
«Sì, è davvero una bella favola. Merito vostro, mi pare.
Lei si schermì:
«Preferisco il noi. Certo io non sono rimasta a dormire sul carro, ma posso dire che ho visto una guardia che ha avuto un bel coraggio...».
La guardia rise e precisò, scherzando:
«No, infatti: non eravate sul carro. Eravate dappertutto, dietro di me, di fianco, davanti...»
Poi ammise:
«Però quanta paura...»
«Anche per questo è meglio il noi: non siete stato solo, io ne avevo almeno altrettanta. Del resto, senza paura non c'è coraggio.»
Seguì un silenzio carico di non detto.
Lo ruppe il giovane:
«Ora, a questa bella favola, si tratta solo di dare un giusto finale...».
La ragazza finse di non capire.
Il giovane la guardava con occhi che dicevano tutto.
Ma non insistette. Cambiò tema.
«Piuttosto, sono curioso. Non mi avete ancora rivelato il nome del Gigante Verde...».
Capelli d'Angelo si illuminò, più bella del solito.
Desiderava farsi pregare.
«Lo volete proprio sapere?»
«Certo, se non è un segreto...».
«Non lo è di certo. E del resto, dalle reazioni della gente che mi avete riferito, mi pare che ormai lo sappiano tutti. Comunque, anche il nome del Gigante Verde, è diventato piccolo: un nome nano...
«Ho capito, volete tenermi in sospeso. Anche qui, come per il finale della favola...»
Capelli d'Angelo si passò una mano tra i capelli, mentre sorrideva di gusto.
«Una cosa per volta: non mi avete detto neppure come vi chiamate. Vi conosco solo come guardia e avete pure smesso di esserlo... E poi, scusate, ma certi finali alle favole, quando le favole sono vere, non si scrivono da soli...».
Il giovane la interruppe, prendendo la palla al balzo:
«Se è per questo...»
Ma la ragazza proseguì imperterrita, zittendolo con un gesto della mano:
«Comunque, d'accordo, per quanto riguarda il nome del Gigante Verde: lui mi ha detto che non sapeva chi fosse, ma tutti lo chiamavano Paura».
*** Massimo Ferrario, Capelli d'Angelo e il Gigante Verde, 2016, per Mixtura. - Elaborazione creativa a partire da uno spunto tratto da una famosa favola antica, anche riportata in Margaret Pakin, Passi da gigante, in Racconti per la formazione, 1998, Etas, 2005, traduzione di Roberto Merlini
Fu una notte di sonno pesante, ma sereno per tutti.
Quando Capelli d'Angelo si svegliò la mattina seguente il sole era già alto: non accadeva da tanto che lei dormisse così a lungo.
La ragazza scese dal carro con una pentola: aveva intravisto una fontanella e aveva bisogno di acqua per sé e i fratellini.
Accanto ad un muricciolo, in una zona ombrosa, notò un pacco. Lo aprì con circospezione: c'erano latte, formaggio, pane, verdura.
Un dono della guardia, sicuramente.
La preoccupazione, con il trascorrere del giorno, cresceva, in attesa di quanto avrebbero deliberato gli abitanti.
Nel villaggio, nella piazza centrale, era stata indetta l'assemblea per decidere le sorti di Capelli d'Angelo e dei suoi fratelli: la guardia aveva portato la notizia alla ragazza a mezzogiorno, lei aveva approfittato per ringraziarlo del pacchetto con il cibo, lui aveva finto di non saperne nulla e poi aveva anticipato che, conoscendo il suoi compaesani, non riponesse troppe speranze in una decisione favorevole. Comunque le avrebbe riferito a fine pomeriggio: ora anche lui andava a partecipare e avrebbe votato.
La ragazza non osò chiedere come avrebbe votato. Si limitò ad abbassare gli occhi e a dire che, naturalmente, avrebbe rispettato qualunque decisione: le bastava uno schiocco di frusta per far ripartire il carro.
La sera, prima del tramonto, la guardia venne a comunicare la risoluzione dell'assemblea.
«E' stato deciso che le nostre regole devono essere rispettate. Chi non è del villaggio ha abitudini e costumi diversi. Noi vogliamo che le nostre usanze non vengano messe in discussione. E se facciamo eccezione una volta, poi la regola diventa l'eccezione. Per questo abbiamo fortificato la cinta del villaggio e manteniamo il grande portone rigorosamente chiuso per tutti quelli che non conosciamo.»
Capelli d'Angelo ebbe un colpo.
Non se l'era detto, quasi per scaramanzia, ma in fondo sperava che la guardia, che aveva mostrato cuore con lei, riuscisse a convincere anche i compaesani.
Era affranta. E adesso?
«Dunque, ce ne dovremo andare...», commentò con un sospiro.
L'uomo allargò le braccia: era il volere dell'assemblea.
«Però non subito», aggiunse.
«Non subito?», si meravigliò la ragazza. «Non capisco».
L'uomo spiegò.
«E' una lunga storia, ma cercherò di essere breve. Se venite con me nella guardiola, siamo lontani dai vostri fratellini: è meglio non sentano.»
Capelli d'Angelo era incuriosita.
E poi, quell'uomo emanava uno strano fascino: avvertiva che anche lui provava per lei e i suoi piccoli una dolce simpatia.
Lo seguì.
E lui iniziò a raccontare.
«Tutto risale a due anni fa. Il villaggio non era recintato, non esistevano né mura fortificate né portoni. Vivevamo liberi e felici. Ma un giorno ci trovammo nella piazza del paese il Gigante Verde.»
La ragazza volle essere sicura di aver capito. Mica la stava prendendo in giro? Se lo fece ripetere.
«Un... Gigante? Dite davvero?»
«Lo so, c'è da non credere. Ma è così: un Gigante. Quasi tre metri d'altezza. Con una faccia mostruosa. E di colore verde: una tinta accesa, violenta, che lo rendeva disgustoso. Lo vidi anch'io e purtroppo non era un'allucinazione. Ma fatemi andare con ordine.»
Capelli d'Angelo si sedette sulla panca della portineria, obbediente e in trepidazione.
«Prometto di non interrompere più: sono tutta orecchi».
Il giovane sorrise.
«Dunque, questo Gigante pretese di parlare con il capo del villaggio. Disse che era una cosa della massima urgenza. Io ero presente, perché anche all'epoca ero uno dei consiglieri del villaggio. Il Gigante Verde disse che dovevamo subito costruire delle mura attorno al paese. Eravamo in pericolo. Il popolo dei Giganti, sparso per il mondo, era in contatto continuo uno con l'altro. E aveva segnalato che masse di uomini di pelle nera stavano abbandonando le aree che abitavano, sempre più colpite dalla siccità, alla ricerca di zone fertili, ricche di cibo. Ormai molti erano giunti nelle vallate qui vicino e presto sarebbero arrivati da noi. Loro, i Giganti, potevano aiutarci tenendo lontana questa gente, ma noi, se volevamo evitare l'invasione, dovevamo trasformare il paese in una fortezza. Unica cosa che lui, il Gigante Verde, chiedeva in cambio per la sua opera di vigilanza era che gli facessimo trovare il venerdì di ogni settimana una mucca macellata alla Pietra dell'Abisso: un punto che si trova in montagna, a un chilometro da qui, famoso per uno strapiombo di trecento metri che fa venire le vertigini anche a chi non ne soffre. Il Gigante Verde disse che viveva nei boschi lì attorno. Non chiedeva altro, però aggiunse minaccioso che non dovevamo saltare una settimana, altrimenti ce ne saremmo pentiti».
Capelli d'Angelo ogni tanto si dimenticava di respirare e ogni tanto tirava un respiro profondo: non perdeva una parola.
«E allora?».
«Discutemmo a lungo: non tutti erano d'accordo nell'accettare, ma alla fine 'quasi' tutti, compreso il capo villaggio, subirono il ricatto».
«E voi?», domandò ansiosa la ragazza.
«Io restai solo: per questo ho detto 'quasi' tutti. Cercai di convincerli, dicendo che chiudendo il villaggio saremmo finiti come in prigione. Ma non mi vollero ascoltare. Il Gigante Verde vinse mettendo paura. Nel giro di un mese, lavorando giorno e notte, costruimmo le mura lungo tutto il perimetro del paese: da quel momento il grande portone, di cui io sono unico responsabile, è stato aperto solo per lasciar passare qualche forestiero fidato per i rifornimenti di merci che noi non riusciamo a produrre.»
La guardia fece una pausa: gli pesava continuare.
«Il peggio però viene ora. Da un anno il Gigante Verde non si accontenta della carne macellata. Sfida gli uomini del villaggio. Esige che la domenica di ogni inizio del mese uno di noi si faccia trovare alla Pietra dell'Abisso per ingaggiare un duello mortale con lui. Pretende che il capovillaggio e io siamo presenti per poter raccontare poi a tutti della sua vittoria.»
L'uomo aveva ogni immagine in mente. Faticava a proseguire.
«Ma è terribile», sospirò Capelli d'Angelo.
«Dodici. Dodici persone sono morte così. E tutte nello stesso modo. Erano in piedi, ritte sulla Pietra dell'Abisso, con le spalle a cinquanta metri dallo strapiombo. Si erano esercitate per giorni a usare la spada, sembravano imbattibili finché facevano le prove qui in villaggio. Poi, lì, davanti al Gigante Verde, neppure sono riuscite a sfilare le armi dal fodero. Quando il Gigante Verde si è presentato di fronte a loro, sono rimaste bloccate, impietrite. Lui ha brandito la spada e loro hanno cominciato a indietreggiare. Lui sembrava diventare ancora più alto, mentre urlava e roteava lo spadone, e loro arretravano, con gli occhi sbarrati. Indietro, un passo dopo l'altro. E lui avanti, sempre più grande ad ogni loro passo indietro, con una risata stridula che bucava le orecchie. Finché, tutti e dodici, a furia di arretrare... Lo strapiombo...».
La guardia si coprì gli occhi con la mano, come per cancellare ciò che ancora stava vedendo.
Quindi rimase zitta per un tempo interminabile.
La ragazza provava sentimenti misti: costernazione, dolore, rabbia.
L'uomo completò il racconto.
«Ora, il Gigante Verde vuole una sfida a settimana. A partire da lunedì prossimo. Gli abbiamo risposto che quella di lunedì sarà l'ultima sfida e se ancora per disgrazia dovesse vincere, comunque non ne avrà altre. Stavolta ci siamo trovati tutti d'accordo, perché abbiamo capito che se non diciamo basta, le sue pretese, sempre più alte, finiranno per ucciderci tutti. Ma lui si è infuriato: gira per boschi e colline urlando e si aggira lungo le mura del villaggio minacciando una strage. Per questo stanotte vi ho fatto entrare. E per questo, finché il Gigante Verde non sarà ucciso, l'assemblea ha deciso che daremo ricovero a voi e ai vostri fratelli».
Capelli d'Angelo rifletteva.
Nel racconto della guardia, qualcosa in particolare l'aveva colpita. E questo, forse, era un elemento decisivo.
Ma fu distolta dal suo ragionamento quando sentì le ultime parole, sussurrate come in una confessione.
«E' arrivato il mio turno. Anche se non so come, lo sconfiggerò. Lunedì, all'alba, sarà il giorno della nostra liberazione».
La ragazza accusò un colpo alla bocca dello stomaco.
Lui voleva apparire sicuro e certo era determinato a rispettare il suo impegno.
«Ora devo andare. Mi sto esercitando con la spada da giorni. Conosco ogni mossa. Lo batterò».
Poi, il viso del giovane ebbe come una contrazione: un pensiero amaro lo aveva colpito.
Non si trattenne ed emise un sospiro.
«Come vi ho detto, la morte del Gigante coinciderà con la vostra partenza: dovrà essere eseguita la deliberazione dell'assemblea».
Era ancora buio, ma alcuni passi accanto al carro misero in allerta il cavallo, che scalciò.
Capelli d'Angelo era pronta.
La sorellina dormiva di traverso, con un piedino buttato sulla spalla del fratello. Entrambi avevano il sonno profondo: un leggero sorriso sulle labbra faceva intuire che fossero felicemente immersi nel mondo dei sogni.
La ragazza sgusciò fuori dalla coperta: si mise un giaccone pesante, indossò uno dei tanti pantaloni che usava per i lavori di fatica e si nascose i capelli sotto un velo. Senza fare rumore, scese dal carro e vide con piacere che la luna, quasi piena, illuminava la notte. Nei giorni precedenti aveva controllato con cura: e infatti nella guardiola era appeso il mazzo di chiavi di scorta. Scelse la chiave e aprì la porticina con cautela: per fortuna nessun cigolio.
Affrettò i passi e li vide subito: ringraziò il chiarore della luna, anche se il rischio di essere scoperta aumentava.
Si mantenne a distanza, misurando i passi e cercando di non fare rumore.
Il viottolo era erboso, senza sassi.
Per fortuna il capovillaggio era vecchio e camminava lentamente. Di fianco, la guardia: si era messa un elmo che luccicava alla luna e portava alla cintura due spade, imponenti.
Arrivarono alla Pietra dell'Abisso dopo un'ora abbondante di cammino: l'ultimo pezzo era stato particolarmente faticoso, perché il sentiero si impennava.
Albeggiava.
Le montagne attorno erano velate: come una leggera nebbia. Ma il sole stava alzandosi e diffondeva un rosato che riempiva l'anima. L'aria comunque era fredda: pungeva il viso e gelava le orecchie.
La guardia si dispose nel punto previsto: i piedi ben piantati, le spalle a una cinquantina di metri dall'abisso, gli occhi che guardavano avanti.
Era concentrata, i nervi tesi come una corda di violino: il mondo tutt'attorno non esisteva, c'era solo l'immagine enorme del Gigante Verde che attendeva comparisse davanti a sé.
Aspettavano tutti con il fiato sospeso.
Il capovillaggio era a pochi metri dal luogo della sfida, come sempre.
Capelli d'Angelo era nascosta al limitare del bosco, dietro un albero.
Finalmente, preceduto da sghignazzi e urla che da soli avrebbero spaventato un esercito e roteando due spadoni enormi che tagliavano l'aria, il Gigante Verde si materializzò.
Riconobbe la guardia e non si stupì. Anzi, era certo che per questa occasione, che al villaggio avevano giurato sarebbe stata l'ultima, l'avversario sarebbe stato il giovane.
«Mi spiace, guardia. Stavolta tocca a te. Hai visto gli altri dodici tuoi compaesani. Non sono neppure riusciti a sguainare la spada. Si sono dimostrati i vigliacchi che erano: sapevano solo indietreggiare. E hanno fatto la fine che meritavano. Accadrà lo stesso anche a te. E il capovillaggio tornerà a raccontare del tuo volo nello strapiombo e dovrà scegliersi un'altra guardia».
Il Gigante Verde, da quando la prima volta era sceso al villaggio per invitarli a costruire le mura, era diventato ancora più alto.
La sua statura ormai era di almeno 4 metri: una massa di carne verde spaventosa. E disgustosa. Chiunque sarebbe scappato alla sua vista: affrontarlo significava il suicidio.
Capelli d'Angelo si era immaginata di provare paura: ma questo era terrore.
La guardia restava impassibile: non indietreggiava, ma neppure avanzava. E teneva sguainate le due spade impugnandole con forza davanti a sé, come per difendersi dall'eventuale avanzata del gigante.
La situazione restò bloccata per almeno un minuto. Ma era un minuto che si misurava in ore.
Poi, il Gigante Verde fece un piccolo passo avanti.
La guardia non riuscì a stare ferma e tentò di fare mezzo passo indietro.
Ma poté solo abbozzarlo.
Perché incontrò la resistenza, ferma come un muro, di un corpo caldo, nascosto dietro le sue spalle.
Sentì una voce che gli bisbigliava, soffiandogli sul collo:
«Se arretrate, prima di voi nello strapiombo cado io: sono ad appena venti metri, poi c'è il vuoto. Forse non è una buona cosa, se volete vincere il Gigante Verde»
Il giovane tentò di voltarsi, incredulo: non poteva essere Capelli d'Angelo...
Ma la ragazza continuava a stringerlo sempre più forte da dietro.
«Sì, sono io, viva e vera: non sono un fantasma.»
Poi aggiunse:
«Però lo potrei diventare, se voi insisteste nell'indietreggiare...»
Non era il momento delle battute, ma la battuta servì.
La guardia sentì una fiammata salirgli da dentro e si ancorò a terra: ora aveva i piedi bloccati, come fissati con dei chiodi.
Il Gigante Verde fece un passo avanti: netto, deciso. Ma la guardia restò bloccata al suo posto: silenziosa, mai stata più serena e sicura di sé, nulla più avrebbe potuto farla arretrare anche solo di un centimetro.
Il corpo della ragazza aderiva perfettamente alla sua schiena: neppure uno spillo avrebbe potuto inserirsi tra loro. Sentiva i suoi muscoli, attraverso il vestito, e il seno in particolare, pigiato sotto le spalle, gli trasmetteva un calore non solo fisico.
Lui invece, il mostro verde, urlava: non capiva cosa gli stesse accadendo, ma nello stesso momento in cui il giovane era riuscito a non indietreggiare, aveva perso una trentina di centimetri di altezza.
Capelli d'Angelo ebbe conferma di quanto aveva sospettato quando aveva sentito il racconto terribile delle dodici sfide precedenti. E, sempre stando attenta a non farsi vedere, diede una piccola spinta in avanti alla guardia. Che infatti cedette alla pressione, schiodò i piedi da terra e li mosse in direzione del Gigante di una ventina di centimetri.
E il Gigante Verde smise di sghignazzare e rimpicciolì di almeno altri cinquanta centimetri.
Fu allora che Capelli d'Angelo si mostrò.
Uscì da dietro la schiena della guardia con un salto di lato: si tolse il velo e sciolse i capelli biondi, che lasciò fluire abbondanti sulle spalle.
Quindi avanzò decisa verso il Gigante Verde. E si fermò a poco più di un metro da lui.
Tutto avvenne in un attimo.
Il capovillaggio, anche per la vecchiaia, ebbe quasi un infarto per la sorpresa: si coprì la faccia per paura di vedere la ragazza fatta a pezzi dagli spadoni del mostro e iniziò a invocare dio come in un rosario.
Il Gigante Verde emise un urlo disperato proprio mentre, ancora una volta, si trovava abbassata la sua statura, ormai ridotta a poco più di due metri.
E il giovane, disperato per il gesto della ragazza che considerava un suicidio, si gettò in avanti deciso a infilzare la pancia del Gigante: superò la ragazza, si fermò fissando quasi con strafottenza gli occhi spiritati del Gigante e la nascose dietro di sé, coprendola con il suo corpo.
Capelli d'Angelo trasse un respiro di sollievo: la sfida era vinta, la guardia doveva solo completare l'ultimo piccolo tratto che la separava dal Gigante Verde.
Incitò il giovane a farlo.
Lui si sentiva una forza che avrebbe spezzato una lastra d'acciaio: nessuno più avrebbe potuto fermarlo.
Avanzò.
E vide che il mostro non era più un mostro: era diventato piccolo come un nano. Non urlava e non rideva più, solo piangeva e si lamentava.
La spada della guardia era sempre più vicina, pronta a trafiggergli il cuore.
Il piccolo essere implorava di avere salva la vita.
La guardia stava per colpirlo quando la ragazza si fece vicino: con una mano allontanò la spada del giovane e chiese al Gigante-Nano come si chiamasse.
Lui cercò di contrattare: l'avrebbe detto se non l'avessero ucciso.
Capelli d'Angelo gli rispose che ormai non poteva permettersi più nulla, neppure di contrattare.
Insistette.
«Voglio il tuo nome».
Lui aveva ormai un filo di voce e le sussurrò il nome in un orecchio.
Lei sorrise, come compiaciuta.
E disse alla guardia di risparmiarlo: ora la sua statura era giusta e la sua vita, come quella di ogni essere vivente, era importante.
Si abbassò verso il Nano, superando il disgusto di guardarlo in faccia
«Tu hai ucciso. Non si insegna a non uccidere uccidendo. E poi la tua esistenza svolge una funzione utile per tutti. Ognuno di noi serve, nella vita. Però ora, per un po', dovrai abbandonare questi posti e far vivere in pace la gente. Del resto, né qui né altrove, potrai più terrorizzare nessuno. Ti limiterai a incutere, ogni tanto, un po' di sana paura: quella che serve a farci stare all'erta tutti.»
Il ritorno in paese fu più lento dell'andata, perché il vecchio capovillaggio doveva riprendersi dallo spettacolo incredibile cui aveva assistito: la guardia gli aveva procurato un ramo nodoso che gli servisse da bastone e Capelli d'Angelo lo sosteneva nell'andatura.
Fu subito indetta un'assemblea.
Capelli d'Angelo era sul suo carro: sistemava le poche cose da portare con sé. Sapeva che avrebbe dovuto lasciare il paese e aveva preparato i fratellini per il viaggio.
Non voleva ammetterlo, ma provava una tristezza sconosciuta, così forte che sentiva male al petto.
La guardia arrivò di corsa, trafelata.
Spalancò il portone con il solito fragore di cardini.
La ragazza era già pronta ad incitare il cavallo a muoversi: era seduta a cassetta e diede il comando a voce. Aveva in mano le redini per far voltare il carro.
Il giovane si piantò davanti proprio mentre il carro stava per muovere le ruote per imboccare l'uscita.
Agitava la braccia. Gridava.
«Stop. Stop. Bloccate il carro. Tornate indietro. Non si esce.».
La ragazza non capiva.
Lui ripeteva.
«L'assemblea, l'assemblea. Ha deciso, proprio ora. Non ve ne dovete andare. Né adesso né mai.»
«Scusate, ma allora perché avete aperto il portone?».
Il giovane era un fiume in piena.
«Il portone d'ora in poi rimarrà sempre aperto. Non solo: distruggeremo le mura fortificate. Non ci saranno più porte. Torneremo a vivere come una volta e i forestieri saranno benvenuti. Io non farò più la guardia, perché non ce ne sarà più bisogno. E poi perché l'assemblea mi ha eletto capovillaggio. Infine tutti vi vogliono conoscere. Avete salvato il paese dal Gigante Verde. C'è un clima nuovo, un'atmosfera impensabile fino a poche ore fa: tutti si abbracciano, mostrano di aver fiducia in se stessi e negli altri. E, soprattutto, sembrano tornati bambini. Si prendono per mano e improvvisano tanti girotondi, ripetendo a gran voce che ormai, finalmente, non hanno più paura. E non vogliono averne mai più.».
Capelli d'Angelo volle farselo ridire:
«Dicono proprio così, che non hanno più paura?»
«Sì. Paura. E saltano contenti tenendosi in cerchio.»
La ragazza provava un tumulto aggrovigliato di sentimenti e emozioni.
In fondo non era sorpresa: ripensò alla confessione del Gigante Verde diventato Nano, quando le aveva rivelato il suo nome, e non poté non sorridere.
«Sarete contenta, immagino» incalzò la guardia diventata capovillaggio.
«Be', certo. E' tutto come una bella favola».
Il giovane annuì.
«Sì, è davvero una bella favola. Merito vostro, mi pare.
Lei si schermì:
«Preferisco il noi. Certo io non sono rimasta a dormire sul carro, ma posso dire che ho visto una guardia che ha avuto un bel coraggio...».
La guardia rise e precisò, scherzando:
«No, infatti: non eravate sul carro. Eravate dappertutto, dietro di me, di fianco, davanti...»
Poi ammise:
«Però quanta paura...»
«Anche per questo è meglio il noi: non siete stato solo, io ne avevo almeno altrettanta. Del resto, senza paura non c'è coraggio.»
Seguì un silenzio carico di non detto.
Lo ruppe il giovane:
«Ora, a questa bella favola, si tratta solo di dare un giusto finale...».
La ragazza finse di non capire.
Il giovane la guardava con occhi che dicevano tutto.
Ma non insistette. Cambiò tema.
«Piuttosto, sono curioso. Non mi avete ancora rivelato il nome del Gigante Verde...».
Capelli d'Angelo si illuminò, più bella del solito.
Desiderava farsi pregare.
«Lo volete proprio sapere?»
«Certo, se non è un segreto...».
«Non lo è di certo. E del resto, dalle reazioni della gente che mi avete riferito, mi pare che ormai lo sappiano tutti. Comunque, anche il nome del Gigante Verde, è diventato piccolo: un nome nano...
«Ho capito, volete tenermi in sospeso. Anche qui, come per il finale della favola...»
Capelli d'Angelo si passò una mano tra i capelli, mentre sorrideva di gusto.
«Una cosa per volta: non mi avete detto neppure come vi chiamate. Vi conosco solo come guardia e avete pure smesso di esserlo... E poi, scusate, ma certi finali alle favole, quando le favole sono vere, non si scrivono da soli...».
Il giovane la interruppe, prendendo la palla al balzo:
«Se è per questo...»
Ma la ragazza proseguì imperterrita, zittendolo con un gesto della mano:
«Comunque, d'accordo, per quanto riguarda il nome del Gigante Verde: lui mi ha detto che non sapeva chi fosse, ma tutti lo chiamavano Paura».
*** Massimo Ferrario, Capelli d'Angelo e il Gigante Verde, 2016, per Mixtura. - Elaborazione creativa a partire da uno spunto tratto da una famosa favola antica, anche riportata in Margaret Pakin, Passi da gigante, in Racconti per la formazione, 1998, Etas, 2005, traduzione di Roberto Merlini
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