sabato 30 aprile 2016
#CIT / Partecipazione alla politica (Platone)
PLATONE, 428 (427) a.C. - 348 (347) a. C.
filosofo greco antico
(dal web)
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#INATURA_MORTA / Édouard Manet, Zoltan Preiner, Ning Lee
Édouard Manet, 1832-1883
pittore francese
(wikipaintings.org, via pinterest)
° ° °
Zoltan Preiner, 1955
pittore ungherese
(levkonoe.dreamwidth.org, via pinterest)
° ° °
Ning Lee
pittore cinese
(via pinterest)
#FAVOLE & RACCONTI / Il neo-assunto (M. Ferrario)
E’ al suo primo giorno di lavoro.
Laureato da diversi mesi, finalmente è riuscito a conquistarsi uno stage presso un’azienda rinomata, di livello internazionale. Per il posto vero e definitivo dovrà attendere ancora chissà quanto e avere un po’ di fortuna. Ma ormai, lo sa, si comincia così. E lui ha voglia e grinta: farà carriera.
La persona che gli è stata presentata come suo capo lo ha appena chiamato in ufficio e senza neppure guardarlo in faccia gli ha gettato in mano un plico di documenti.
Poi gli ha bofonchiato:
«Una copia. Urgentissima. E mi raccomando: è materiale originale e riservato».
Lui, desideroso di fare bella figura e di dimostrare impegno, ha prontamente sorriso, ha accennato un inchino pronunciando un ossequioso «subito, dottore» e quindi, uscito dalla stanza, ha percorso il lungo corridoio del piano alla ricerca della fotocopiatrice.
Alla fine del corridoio, vicino ai bagni, c’è un apparecchio.
Il ragazzo l’ha raggiunto e ora è lì davanti.
Fermo.
Lo osserva con occhio interrogativo.
In quel momento, un collega che sta per entrare nei servizi e lo vede in piedi che cerca incuriosito di capire il funzionamento della macchina, gli si blocca accanto.
«Ciao, posso aiutarti?».
Il ragazzo, un po’ titubante e con il timore di fare una figuraccia proprio il primo giorno di lavoro, risponde:
«Grazie, in effetti stavo cercando di capire come funziona questo aggeggio… I modelli che conosco io sono diversi…».
«Grazie, in effetti stavo cercando di capire come funziona questo aggeggio… I modelli che conosco io sono diversi…».
Il collega lo rassicura:
«Non c’è problema, amico».
Gli strappa di mano il pacco di fogli e lo sistema davanti alla bocca dell’apparecchio.
Quindi schiaccia un pulsante e l’apparecchio, silenziosissimo, entra in funzione.
Passano pochi secondi e ricompare il led verde vicino al tasto di avvio.
«Ecco fatto», commenta il collega.
«E’ l’ultimo tipo. Compatto. Velocissimo. E hai visto: basta schiacciare un pulsante».
Il ragazzo continua a fissare la macchina.
Poi si china.
La tocca in più punti.
Cerca e ricerca con lo sguardo.
Appare chiaramente imbarazzato.
Il collega, già con la mano sulla maniglia della porta per entrare in bagno, nota che il ragazzo, ritto di fianco alla macchina, continua ad aspettare qualcosa e, come per darsi un contegno, tamburella con le dita sul fianco dell’apparecchio.
Si informa.
«Be’, è tutto a posto, no?».
Il ragazzo arrossisce.
Balbetta:
«Sì, però…».
«Però…?», lo incalza il collega.
«No, è che mi stavo chiedendo: e le fotocopie?».
Il collega non ha bisogno di rispondere.
Nello stesso momento, il ragazzo scopre la vaschetta di raccolta posta sul retro della macchina.
Trabocca.
Un’infinità di strisce sottilissime, impalpabili, come fossero capelli d’angelo.
Davvero eccezionale quell’ultimo modello di tritadocumenti.
*** Massimo Ferrario, Il Neo-assunto, 2013-2016. Rielaborazione di una storiella anonima diffusa anche in internet. Pubblicato anche in 'Pensieri & Sorrisi', circolazione riservata, dicembre 2013
#SGUARDI POIETICI / Sotto la maglietta (Paolo Ruffilli)
Quando sarò lontano
ti sognerò
e, sognandoti,
mi sforzerò di non sognare
pensando di toccare
per davvero
la tua pelle di luna,
i tuoi capelli
e metterò la mano
sulla tua schiena
sotto la maglietta,
da te guidato lì
ridendo per l’intesa.
E riuscirò,
perfino sul fantasma,
a fare presa.
ti sognerò
e, sognandoti,
mi sforzerò di non sognare
pensando di toccare
per davvero
la tua pelle di luna,
i tuoi capelli
e metterò la mano
sulla tua schiena
sotto la maglietta,
da te guidato lì
ridendo per l’intesa.
E riuscirò,
perfino sul fantasma,
a fare presa.
*** Paolo RUFFILLI, 1949, scrittore, poeta, Sotto la maglietta, da Paolo Ruffilli, Affari di cuore, Einaudi, 2011
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#PAROLE DESUETE / Caccabaldola (M. Ferrario)
Caccabaldola
sostantivo femminile, usato soprattutto al plurale, di origine toscana: moina, coccola, smanceria, gesto lezioso.
Di etimologia incerta; forse da cabala e dal tema del fiorentino camaldolare, che sta per litigare (dizionario Tullio De Mauro).
Esempio:
«feciongli mille carezze e caccabaldole» (Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, 1503-1584, poeta, scrittore e commediografo)
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
sostantivo femminile, usato soprattutto al plurale, di origine toscana: moina, coccola, smanceria, gesto lezioso.
Di etimologia incerta; forse da cabala e dal tema del fiorentino camaldolare, che sta per litigare (dizionario Tullio De Mauro).
Esempio:
«feciongli mille carezze e caccabaldole» (Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, 1503-1584, poeta, scrittore e commediografo)
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
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#MOSQUITO / Terrorismo, immigrazione, Occidente (Paolo Flores d'Arcais)
(...) Della razionalità minima dovrebbe esser componente ineludibile la consapevolezza che la trasmigrazione in corso è fenomeno d’epoca che non si può fermare. La si può rendere, forse, meno caotica, il che significa meno orribile, ma innanzitutto per le vittime, cioè «loro» che vogliono venire a vivere da «noi». Perché se ogni appartenente a Homo sapiens è titolare di pari dignità, con che diritto respingeremmo chi qui vuole vivere, dopo aver sbandierato come diritto naturale quello di migrare a ondate successive da Inghilterra, Olanda, Germania, Francia, Italia, Irlanda, verso i luoghi non disabitati che sono poi divenuti Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda…? E se rinunciamo al principio dell’eguale dignità fra tutti gli esseri umani, cosa resta della nostra civiltà e della nostra legittimità? Una civiltà di «fraternité» che la relega e regala al papa, come civiltà ciancia di esistere ma si è già estinta.
La razionalità minima ci dice che la trasmigrazione secolare in atto si può fermare solo se nei paesi in cui origina si riuscisse a porre fine a guerre e povertà (una povertà alla lettera impensabile: può qualcuno di noi immaginare come si possa sopravvivere con un dollaro al giorno?). Un’ipotetica del terzo tipo, evidentemente.
Gli immigrati hanno dalla loro la demografia, oltretutto. Razionalità minima esige che si riconosca dunque l’inespugnabile dato di fatto: il futuro è loro, inevitabilmente, fatalmente, irrimediabilmente. L’unica possibilità perché la nostra civiltà (qualsiasi cosa voglia dire) non venga cancellata è che anche «loro» diventino «noi», parte e componente della «civiltà occidentale» che tutti a parole qui dicono di voler salvaguardare, che anche «loro» ne assorbano i valori, diventandone così cittadini a tutti gli effetti.
Ma in cosa consiste la civiltà occidentale? Nel rifiuto del privilegio, nell’abrogazione asintotica di ogni privilegio. Questo il dna di legittimazione delle democrazie in cui diciamo di vivere. Ma dove sono, in Occidente come espressione geopolitica, gli establishment di questo Occidente come civiltà? E anche fuori degli establishment, presso quali forze capaci di pesare nella vita pubblica? Ma se l’Occidente non è la civiltà della lotta instancabile ai privilegi, ha già rinunciato alla fonte di ogni sua possibile legittimazione, e può affidarsi solo ai nudi rapporti di forza. Quelli appunto su cui scommette la razionalità omicida del Sacro e dei suoi terroristi martiri «Allah Akbar». (...)
*** Paolo FLORES D'ARCAIS, filosofo, direttore di 'MicroMega', Terrorismo e ragione. La lucidità omicida del Jihad islamico e il sabba di irrazionalità degli establishmnet euoropei, 'MicroMega', n. 3, 2016
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#LINK / Conflitto, in azienda (Enrico Verga)
Il concetto di conflitto, la versione ultima del confronto di idee, ha connotato l’evoluzione di ogni specie vivente. Difficile quindi pensare che nella razza umana tale tendenza non si manifesti in ogni settore. Il conflitto corporativo, tuttavia, non è affrontato egualmente in ogni parte del mondo. Vi sono due macro aspetti, potremmo dire. Uno occidentale e uno orientale.
Quello più familiare a ogni lettore è quello occidentale, di confronto diretto del problema, del bersaglio. Tuttavia anche in questo caso la semplice eliminazione del bersaglio non è l’oggetto ultimo in molte società. Una prima chiave di lettura delle strategie per affrontare il conflitto in scenari aziendali può essere mutuato dai 3 grandi giochi che connotano i tre grandi fratelli.
1. Il Giogo del Go, ovvero il mantenimento della relazione (...)
2. Il gioco della danza, ovvero il riconoscimento del potere (...)
3. Il gioco degli scacchi, ovvero l’eliminazione dell’avversario (...)
Il conflitto in Europa e in America, un poker tra gerarchia e meritocrazia (...)
*** Enrico VERGA, consulente strategico e istituzionale, Tre giochi per affrontare il conflitto in azienda. Come i concetti di faccia, gerarchia e relazione influenzano il business, 'senzafiltro', 27 aprile 2016
LINK articolo integrale qui
venerdì 29 aprile 2016
#SORRISI_CONTAGIOSI / Bermuda, Etiopia, Nord Kenia
Bermuda
(via pinterest)
° ° °
Etiopia
foto di Steven Goethals
(via pinterest)
° ° °
Nord Kenia
foto di John Kenny
(via pinterest)
#SGUARDI POIETICI / Domenica di maggio (Francesco De Girolamo)
Stamattina mi manca un sorriso,
un sorriso di ieri, non ancora svanito;
una mano che dava il suo tenue
calore, senza strette tenaci,
una bocca un po’ avara di baci,
per timore che non fosse gradito,
in quel tempo feroce, improvviso,
il suo labbro sbiadito; i suoi slanci
d’affetto, d’un tono pacato, sopito,
il suo abbraccio d’un corpo ferito,
in attesa di pace, forse ignaro
di quanto crescesse, velenoso,
quel fiore nascosto nel petto.
E il mio cuore, smarrito, sussulta,
come fossi un bimbetto, nel buio,
di paure segrete, di tristezze
inconsuete, per un giorno di festa.
Metto un fiore di campo in un vaso,
il più antico di casa, che un tempo
si riempiva di garofani e gigli,
a lei cari. E mi fermo, in silenzio,
a pensare alla voce lontana
dell’ultimo giorno, a un saluto
che indicava un futuro ritorno,
un incontro di rito, di nuovo fissato:
forse il suo primo impegno tradito,
senza il cenno d’un qualche preavviso,
d’un suo appuntamento mancato.
un sorriso di ieri, non ancora svanito;
una mano che dava il suo tenue
calore, senza strette tenaci,
una bocca un po’ avara di baci,
per timore che non fosse gradito,
in quel tempo feroce, improvviso,
il suo labbro sbiadito; i suoi slanci
d’affetto, d’un tono pacato, sopito,
il suo abbraccio d’un corpo ferito,
in attesa di pace, forse ignaro
di quanto crescesse, velenoso,
quel fiore nascosto nel petto.
E il mio cuore, smarrito, sussulta,
come fossi un bimbetto, nel buio,
di paure segrete, di tristezze
inconsuete, per un giorno di festa.
Metto un fiore di campo in un vaso,
il più antico di casa, che un tempo
si riempiva di garofani e gigli,
a lei cari. E mi fermo, in silenzio,
a pensare alla voce lontana
dell’ultimo giorno, a un saluto
che indicava un futuro ritorno,
un incontro di rito, di nuovo fissato:
forse il suo primo impegno tradito,
senza il cenno d’un qualche preavviso,
d’un suo appuntamento mancato.
*** Francesco DE GIROLAMO, poeta e regista teatrale, Domenica di maggio, in ‘Via delle belledonne’, 12 maggio 2013, qui
#LINK / Leadership, un viaggio e non una meta (David Bevilacqua)
(...) Io non sono un intenditore o un fanatico, ma i direttori d’orchestra mi hanno sempre affascinato.
Dirigono in silenzio, a volte con movimenti impercettibili, una grande squadra di professionisti. Hanno una chiara idea di ogni brano musicale. La partitura musicale che hanno fornisce la mappa dettagliata, riga per riga di ciò che ogni musicista dovrebbe fare in ogni singolo momento dell’esibizione.
Inoltre, i direttori hanno la propria idea personale di come il concerto dovrebbe essere, più la loro interpretazione emotiva della musica. Sono musicisti, ma non intervengono mai e in realtà suonano uno strumento, sono fedeli alla parte loro come fanno i loro colleghi musicisti.
Ho sempre guardato i direttori d’orchestra come grandi esempi di leadership (...)
*** David BEVILACQUA, top manager, La leeadership non è una meta, ma un viaggio, 'chefuturo', 25 aprile 2016
LINK articolo integrale qui
In Mixtura 1 altro contributo di David Bevilacqua qui
#RITAGLI / Neoliberismo, cos'è (Alessandro Gilioli)
Ieri un'amica economista, per divertirsi, ha calcolato che, per guadagnare quello che Marchionne prende in un anno, un voucherista italiano dovrebbe lavorare 2.500 anni tutti i 365 giorni dell'anno. Un rapporto 1 a 2.500, pertanto, ipotizzando generosamente che anche Marchionne non riposi nemmeno un giorno.
Diceva Adriano Olivetti che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo». Il capitalismo italiano è insomma passato in mezzo secolo dalla teorizzazione di un rapporto 1 a 10 alla pratica di un rapporto 1 a 2.500. (...)
*** Alessandro GILIOLI, giornalista, saggista, Cos'è, semplicemente, il neoliberismo, blog 'piovono rane', 28 aprile 2016
LINK articolo integrale qui
#LINK / Mobbing, ucciso dal jobs act? (Chiara del Piore)
Nel nostro Paese se ne inizia a parlare negli anni Novanta, con circa un ventennio di ritardo rispetto a Canada ed Europa. Il mobbing, termine usato nell’opinione comune per designare comportamenti discriminatori o vessatori sul luogo di lavoro, è un fenomeno molto dibattuto, soprattutto in passato, quanto scarsamente o per nulla disciplinato: in Italia non esiste tuttora una legge ad hoc, la prima disposizione che riconosce il mobbing come reato è una sentenza della Cassazione del 2015.
Solo nel 1996 – in Canada il dibattito inizia nel 1977 circa – in Italia nasce Prima, la prima associazione italiana contro mobbing e stress psico-sociale, grazie all’impegno di Harald Ege, psicologo e attualmente principale esperto di mobbing in Italia. «Un ritardo, quello dell’Italia, motivato perlopiù da ragioni di tipo culturale: all’estero il lavoratore è da tempo riconosciuto come un vero e proprio capitale dell’azienda, in Italia il processo di ‘umanizzazione’ del lavoratore non è mai avvenuto», spiega Ege. (...)
Volendo scattare una recente fotografia, secondo gli ultimi dati a firma Ispesl sono circa un milione e mezzo i lavoratori italiani vittime di mobbing, su circa 22 milioni di occupati: la maggior parte di essi, il 65 per cento, risiede al nord, oltre la metà (52 per cento) è di sesso femminile e il 70 per cento lavora nella Pubblica Amministrazione. A queste evidenze statistiche Ege aggiunge che «seppure ognuno di noi può trovarsi a essere vittima di mobbing, i giovani lo sono meno rispetto ai più anziani, sia perché costano di meno e quindi l’azienda tende a mantenerli all’interno del proprio organico, sia perché non hanno ancora raggiunto l’apice della carriera e quindi probabilmente sono ritenuti meno ‘pericolosi’».
Ma, azzardiamo, la minore attenzione rispetto al mobbing non potrebbe essere in qualche modo ricollegabile al Jobs Act e alle novità introdotte? L’ipotesi potrebbe essere: alcuni strumenti in possesso delle aziende grazie alle nuove disposizioni renderebbero in qualche modo più semplice «liberarsi» del lavoratore sgradito senza ricorrere ad azioni come il mobbing.
Su tutte: novità legate al licenziamento senza giusta causa e demansionamento. (...)
*** Chiara DEL PRIORE, giornalista, Il Jobs Act ha ucciso il mobbing? Potrebbe esserci un legame con le novità introdotte dal Jobs Act, su tutte licenziamento senza giusta causa e demansionamento?, 'senza filtro', 27 aprile 2016
LINK articolo integrale qui
#VIDEO / Pubblicità, carta vs. Ipad (le Trèfile)
Carta vs. Ipad
Pubblicità Le Trèfile - marzo 2013
video 0min39
Una pubblicità ironica e creativa: viva la carta... (mf)
giovedì 28 aprile 2016
#CIT / La voglia di votare (Robert Sabatier)
Robert SABATIER, 1923-2013
scrittore francese
(via facebook)
#FUMETTI / Tesoro mio (Charles Schulz)
Charles SCHULZ, 1922-2000
fumettista statunitense
(via facebook)
In Mixtura altri 10 contributi di Charles Schulz qui
#SGUARDI POIETICI / Bambino sull'autobus (Sara Ferraglia)
A che pensi bambino,
dai curiosi occhi neri
fisso nel passeggino,
fra gli adulti alti e seri?
Sei attratto bambino
dalle luci riflesse sui visi,
fredde luci di un telefonino.
Tu sorridi, li chiami ed insisti…
Per uno che risponde ai tuoi sorrisi
mille altri non si accorgono che esisti.
Non cercarli bambino.
Se mi siedo vicino
ecco, vedi? Basta poco…
“Bella manina, dove sei stata?
Dalla nonnina
Cosa ti ha dato?
Pane e ciccina…
gratta gratta la bella manina!”
E’ questo un vecchio gioco
che faceva mia nonna con me.
Ti scalda come il fuoco
e lo regalo a te.
dai curiosi occhi neri
fisso nel passeggino,
fra gli adulti alti e seri?
Sei attratto bambino
dalle luci riflesse sui visi,
fredde luci di un telefonino.
Tu sorridi, li chiami ed insisti…
Per uno che risponde ai tuoi sorrisi
mille altri non si accorgono che esisti.
Non cercarli bambino.
Se mi siedo vicino
ecco, vedi? Basta poco…
“Bella manina, dove sei stata?
Dalla nonnina
Cosa ti ha dato?
Pane e ciccina…
gratta gratta la bella manina!”
E’ questo un vecchio gioco
che faceva mia nonna con me.
Ti scalda come il fuoco
e lo regalo a te.
*** Sara FERRAGLIA, poetessa e scrittrice, Bambino sull'autobus, blog 'sarà poesia', 11 aprile 2016, qui
#RITAGLI / Letteratura, il suo grande potere (Alicia Giménez-Bartlett)
Ho fatto l’insegnante di letteratura per un anno, come supplente, mentre di solito insegnavo lingua inglese: è difficilissimo! L’anno è andato benissimo, perché sono stata una professoressa… pessima! La prima cosa che ho fatto non è stata leggere Cervantes, ma portare gli studenti in libreria. Come si fa a leggere, se non sai come si fa? Sembra paradossale, ma molti ragazzi non avevano mai messo piede in una libreria; allora li ho aiutato a scoprire i libri, a maneggiarli e a sceglierli. Si tratta di dare loro gli strumenti giusti; non è difficile pensare a questo: io ad esempio non ero mai entrata in una galleria d’arte e la prima volta avevo paura di fare una figura ridicola. Non facevo che chiedermi: “come posso chiedere il prezzo di un quadro?” I miei studenti hanno fatto la stessa cosa nella libreria, ma poi… Poi abbiamo letto molto in classe: inizialmente li interrompevo di tanto intanto, chiedendo: “Perché dice questo il personaggio?”. Questo interrogarsi continuo, sconvolgeva gli studenti, ma solo per poco: presto hanno iniziato a fermarsi da soli, al momento, per aggiungere commenti e ipotesi.”
*** Alicia GIMÉNEZ-BARTLETT, 1951, scrittrice spagnola, intervistata da Gloria Ghioni, Alicia Giménez-Bartlett si racconta: “Vi svelo il grande potere della letteratura…”, 'il libraio', 12 aprile 2016.
LINK intervista integrale qui
In Mixtura altri 2 contributi di Alicia Giménez-Bartlett qui (compresa la mia recensione al suo ultimo libro 'Uomini Nudi', Sellerio, 2016)
#VIDEO / Comunicazione persuasiva (Robert Cialdini)
Robert CIALDINI, 1945
psicologo sociale statunitense
La prima regola della vendita
intervista di Luca Mazzucchelli
diffuso da Luca Mazzucchelli, 16 ottobre 2015
video5min20
Robert Cialdini è psicologo sociale, docente di marketing, esperto internazionale di 'comunicazione persuasione' e famoso saggista.
Questi gli argomenti toccati nell'intervista (con il minutaggio delle parti):
0:33 Quali elementi trasformano una breve conversazione in una comunicazione persuasiva
1:39 La prima regola della vendita
2:43 Quali caratteristiche deve avere un leader persuasivo
3:28 Il più importante principio da utilizzare al lavoro
4:06 Quali strumenti permettono di misurare la persuasione
#LINK / Generazioni, troppe in azienda? (Enzo Riboni)
“Mio figlio diciottenne l’altra sera doveva andare a una festa di amici un po’ più formale del solito. Per la prima volta, quindi, voleva mettersi la cravatta. Non c’è problema gli dico io, vieni qui che ti insegno a fare il nodo. Lui si mette a ridere e sai cosa mi risponde? Ma no dai, papà, vado a vedere su YouTube, lì sono più aggiornati”.
Il padre che fa questo racconto non è un attempato nonnino lontanissimo dal mondo dei giovani, è un brillante 45enne direttore di una società di consulenza sulle risorse umane. “Lo vedo nelle aziende”, spiega, “i giovani spesso non si fidano dell’esperienza degli anziani, per loro la comunicazione è solo visiva, mediata dallo schermo di uno smartphone”.
È questo il problema (e non il solo) della compresenza oggi in azienda di quattro generazioni, che diventeranno cinque nel 2030 quando arriverà anche la Generazione α dei nati dopo il 2010. Si parla cioè troppo di tutoraggio, di reverse mentoring, di collaborazione virtuosa giovani-anziani: tu mi trasferisci la tua esperienza e io ti insegno l’uso delle tecnologie. Sono formule, sono pannicelli che spesso neanche riscaldano il clima aziendale: se c’è sfiducia reciproca, il conflitto è l’esito. (...)
*** Enzo RIBONI, giornalista, saggista, Ci sono davvero troppe generazioni in azienda?, 'senzafiltro', 27 aprile 2016
#SENZA_TAGLI / Gli italiani, non soni tutti uguali (Gaetano Salvemini)
Molte volte per spiegare, o peggio ancora per giustificare, gli spropositi e le porcherie fatti ieri e oggi dai politicanti italiani di ogni denominazione, si ripete che “gli italiani son fatti così” e la botte non può dare che il vino che ha.
Giolitti ai suoi tempi diceva che il popolo italiano era gobbo e – lui – non poteva fare a un gobbo altro che un abito da gobbo. E certo il popolo italiano era gobbo. Ma Giolitti invece di tentare quanto sarebbe stato possibile per farlo, non dico dritto come un fuso, ma un gobbo meno gobbo di quanto egli aveva trovato, lo rese più gobbo di quanto fosse prima. Poi venne Mussolini e disse che il popolo italiano era buono a nulla. Poi sono venuti molti – troppi – antifascisti e anch’essi dicono che il popolo italiano è fatto così. Dove tutti sono responsabili, nessuno è responsabile…
La verità è che dove tutti sono responsabili, ciascuno è responsabile per la parte che gli spetta, in proporzione della sua capacità a fare il bene o fare il male, e in proporzione del male che ha realmente fatto e non ha cercato di impedire. Un contadino sardo è anche lui responsabile per la sua quarantacinquemilionesima parte di quanto avviene oggi in Italia. Ma un Ministro che sta a Roma è infinitamente più responsabile che un contadino sardo, per quel che avviene col suo consenso , o per suo ordine, o con la sua complice passività…
Gli italiani furono responsabili per non aver mandato al diavolo il re col suo duce, sebbene, a dire il vero, sia difficile spiegare che cosa gli italiani avrebbero potuto fare, ridotti come erano a polvere incoerente e passiva da una organizzazione di pretoriani armati e da una polizia onnipotente. Ma lui il re, che non correva nessun pericolo di essere bastonato o mandato al domicilio coatto e in galera, lui, il re che aveva ai suoi ordini un esercito, non ebbe dunque nessuna responsabilità nelle vigliaccherie e nelle perfidie per cui rimarrà immortale nella storia?…
Sissignori, gli italiani presi uno per uno sono quello che sono. Ma grazie al cielo, non tutti sono allo stesso modo. Ve ne sono alcuni che…sono fatti diversamente.
Quanti siano stati partigiani in Italia fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 nessuno saprà mai. Il comandante delle truppe angloamericane ammise che nei primi mesi del 1945 essi distrassero dal fronte di combattimento sei divisioni nazifasciste. Sei divisioni, anche calcolando diecimila uomini per divisione, fanno 60.000 uomini. Per tenere a bada 60.000 uomini bene armati, organizzati alla tedesca sotto una direzione centrale, quei partigiani scalcagnati, divisi in gruppi scombinati, senza rapide comunicazioni, e con un direzione centrale che funzionava come Dio voleva, devono essere stai almeno tre volte più numerosi delle divisioni nazifasciste. Dunque non corriamo pericolo di esagerare se mettiamo che nei primi mesi del 1945 vi erano nell’Italia del Nord non meno di 180.000 partigiani. Ma mettiamo fossero non più di 100.000. Dietro a quei 100.000 uomini di prima linea, c’erano le seconde e le terze linee, senza il cui favore la prima linea non avrebbe potuto tenere duro per mesi. Se calcoliamo tre persone (uomini e donne) di seconda e terza linea per ogni uomo di prima linea, siamo certi di non esagerare. Abbiamo dunque un totale di 100.000 più 300.000 uomini e donne: cifra tonda 400.000 italiani.
Non tutti sono stinchi di santo. D’accordo. Molti erano anche essi fatti così. D’accordo. Facciamo una tara della metà. Facciamo una tara dei due terzi. Facciamo una tara dei tre quarti. Si potrebbe essere più pessimisti di così? Restano sempre 100.000 uomini e donne, in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti, che erano fatti diversamente.
E quand’anche gli italiani che sono fatti diversamente, fossero non centomila, ma appena mille, cento, dieci, uno solo, quell’uomo solo – degno di rispetto e non carogna – dovrebbe tener duro e non mollare. E sarebbe dovere approvarlo, incoraggiarlo, sostenerlo e non dirgli: “Pensa alla salute, tira a campare, chi te lo fa fare, bada ai fatti tuoi, lascia correre: gli italiani son fatti così”. Un uomo degno di rispetto è una ricchezza che non si deve buttare via. Chi sa? Quell’uomo solo potrebbe diventare, quando meno lui stesso se lo aspetta, centro d’attrazione e di cristallizzazione per molti altri.
*** Gaetano SALVEMINI, 1873-1957, storico, politico e anti-fascista, riportato da da Luisa Sturani Monti, a cura, Antologia della Resistenza, Edizioni gruppo Abele, aprile 2013, citato in 'linkiesta', 25 aprile 2012, qui
In Mixtura altri 2 contributi di Gaetano Salvemini qui
mercoledì 27 aprile 2016
#IN_LETTURA / Kate Greenway, Makiwa Mutomba, Pierre-August Renoir
Kate GREENWAY, 1846-1901
illustratore inglese
(womenreading.tumblr.com, via pintererst)
° ° °
Makiwa MUTOMBA, 1976
pittore dello Zimbabwe
(makiwamutomba.com, via pinterest)
° ° °
Pierre-Auguste RENOIR, 1841-1919
pittore francese
(popartmachine.com, via pinterest)
In Mixtura altri 2 contributi di Perrre-Augist Renoir qui
#MOSQUITO / Felicità, addosso come una febbre (Roberto Vecchioni)
La felicità, mi dicevo, non è un momento in cui ti estranei da tutto: non è una passeggiata sul lungomare, sapendo una donna là con te, ad ascoltare tra mille palle la storia della tua vita. Questo e altro si chiama pace, serenità, ed è una debole, miserabile copia della felicità. La felicità è la sfida, la battaglia, sa dio se vinco o perdo: sta a mezzo tra chi eri e chi sei, e tu a roderti l’anima, a domandarti risposte, non trovare, cercare, non trovare, cercare, cercare, fino all’accordo che fa la canzone che vuoi, come la vuoi, e che per carità non sia l’ultima. La felicità è la paura che ti fa forte; cosa credi, di farmi paura? Io gioco a carte con te fino allo sfinimento e non cerco di chiudere il mazzo e riporlo. Io le ridò, le carte, fino all’alba del giorno dopo e di quello dopo ancora. E non pensare di farmi vincere una mano per piantarla lì. Io non voglio una mano, voglio la partita. Ah, morire, e che credi, di sbrigartela così? Io me ne impippo della fine e dei brillanti che semini qua e là per farmi chinare. Io la felicità la voglio addosso come una febbre, un innamoramento che non si spegne, la lunga onda di una mareggiata d’inverno con tutti gli scogli e i rifiuti possibili e insieme il corpo di una donna bellissima che esce dal mare e mi manda da lontano la vela di un bacio. Eccola, la felicità.
*** Roberto VECCHIONI, 1943, già insegnante, cantautore, scrittore, poeta, La vita che si ama. Storie di felicità, Einaudi, 2016
In Mixtura altri 6 contributi di Roberto Vecchioni (e una mia recensione al suo libro 'Il mercante di luce', Einaudi, 2014)
#LINK / Email, difendersi dall'invasione (Oliver Burkeman)
(...) Cercare di smaltire tutta la posta elettronica è una battaglia persa, in parte perché i messaggi continuano sempre ad arrivare e in parte perché comunque è controproducente: per ogni email che mandiamo, di solito ne riceviamo un’altra di risposta, e siamo da capo. Ma per quelle di ieri non è così. Ieri è già passato, perciò il numero di messaggi in arrivo non può aumentare.
Neanche il capo più perfido o l’amico più bisognoso di aiuto possono chiederci altro tempo nel passato. Perciò con Yesterbox non siamo più su una specie di tapis roulant e ogni email a cui rispondiamo è una di meno: il nostro obiettivo non si allontana all’infinito. (...)
*** Oliver BURKEMAN, giornalista e saggista britannico, Per gestire una montagna di email bisogna vivere nel passato, 'internazionale.iit', 19 aprile 2016
LINK articolo integrale qui
In Mixtura altri 10 contributi di Oliver Burkeman qui (compresa una mia recensione al suo libro recente "La legge del contrario", Mondadori, 2015)
#SENZA_TAGLI / Allineare? No, responsabilizzare (Doriano Marangon)
Qualche giorno fa ho ricevuto la visita di un tecnico per riparare la linea ADSL. Mentre lo osservavo il tecnico ha cominciato a dire al collega con cui era in contatto telefonico: "il modem si sta allineando... adesso, ... ecco ... ora è allineato." Osservando lo scambio tra i due tecnici ho avuto quel che si dice un'illuminazione!
Quella parola, allineare, che mi è sempre stata ostica, tanto da farne materia dei miei corsi, è usata molto spesso nelle organizzazioni; n inglese fa aligning people with strategy, o detto in modo più semplice dai manager italiani con i quali mi trovo a lavorare, bisogna che le persone siano allineate. Ecco che questa locuzione che troviamo in inglese o in italiano nei siti di moltissime società, spesso nell'area People o HR, per illustrare il modo in cui le persone vengono gestite, ritrova il suo vero senso: allineare è un vocabolo che esprime uniformità, conformismo, disciplina, una minore possibilità di intervento. Parole che mi fanno tornare a contesti dimenticati, ma in cui la libertà d'azione è estremamente limitata: la scuola materna o elementare (da cui si usciva allineati per ordine di altezza) e il servizio militare (stare allineati e coperti). Due mondi caratterizzati dall'avere comportamenti che devono essere standardizzati nell'abbigliamento, indossando le divise, e nell'obbedienza agli ordini, che offrono solo la costrizione ad agire in modo predeterminato. Soggiacenti a un'autorità che si applica mediante il comando e il controllo. In sintesi, organizzazioni gerarchiche.
Torniamo alla mia storia; il tecnico dopo qualche altro controllo alla fine mi disse: "il modem adesso è allineato ... ma la linea adsl non funziona!".
Nelle imprese spesso avviene lo stesso: le persone vengono allineate alla strategia, con norme, regole e obiettivi ma i risultati non arrivano.
Forse piuttosto che allineare le persone, dovremmo dire loro in modo chiaro e ripetuto, dove l'organizzazione vuole andare (la cara vecchia visione) e soprattutto il perché (l'attenzione al senso e al significato dei comportamenti lavorativi e dei contributi richiesti), che sono le cose di cui ci si dimentica più facilmente quando si è presi dalle frenetiche attività quotidiane.
Credo che il problema sia dovuto al fatto che l'allineamento prevede un ordine, un comando, una struttura gerarchica e che le persone agiscano per dovere, ma il dovere è alimentato da un'autorità. Ora l'autorità è stata eliminata dalla nostra società ormai qualche decennio fa. I giovani che entrano nelle aziende, quando ci riescono, non sanno cosa sia un ordine, né un comando, né un dovere.
In un mondo e in una società sempre più individualizzata, come ci ricorda Ulrich Beck, sarebbe utile passare dal dovere alla responsabilità, due parole che non sono sinonimi. La responsabilità richiede forti motivazioni interne e diversamente dal dovere non può essere originato ad un comando o da un consenso ricercato. È tutta a carico dell'individuo.
A questo proposito, è utile cogliere come i capi e i manager reagiscano nelle aule e nei workshop quando dico loro che gli individui oggi ricercano responsabilità e autonomia. Convinti dalla loro esperienza che al contrario i giovani millenari, e non solo, cerchino di sfuggire le responsabilità. L'idea di fondo che emerge da queste opinioni è che i collaboratori sono concepiti come dei dipendenti, o nella versione più gerarchica dei sottoposti e in quella più simpatica come i miei ragazzi. Persone inferiori, che non sono allo stesso livello e non hanno le stesse possibilità d'intervento. Una considerazione evidentemente antiquata e fuori dalla realtà odierna. Essere responsabili è una faccenda da persone adulte, da persone indipendenti e per persone che sanno assumersi la responsabilità nei confronti degli altri.
Responsabilizzazione è un termine poco elegante e non esplicito in italiano, che è usato in genere come traduzione del termine americano empowerment (dare potere). Responsabilizzare quindi consiste nell'attribuire potere alle persone che lavorano con noi, il potere di fare, di agire e soprattutto di decidere. È solo in questo modo che i nostri collaboratori, impiegati, quadri, operai e, sì a volte anche dirigenti, saranno capaci di portare a casa i risultati agognati.
Smettiamola di allinearli come delle spie accese su un modem. Facciamo del vero empowerment organizzativo in cui comunichiamo la visione del futuro, permettendo loro così di prendere le decisioni, e lasciamo che siano loro a trovare le strategie e il modo migliore per raggiungere i risultati con la loro intelligenza, le loro competenze e capacità, i loro talenti, la loro passione.
*** Diruano MARANGON, consulente, Allineare o Responsabilizzare? Alignment or Empowerment?, 'HrOnLine', n. 8, aprile 2016, qui
In Mixtura una mia recensione al libro di Doriano Marangon ("Il comportamento organizzativo nelle aziende", Carocci, 2015), qui
#VIDEO / Giustizia, non ci credo più (Roberto Saviano)
Roberto SAVIANO, scrittore
“Non credo più nella giustizia, nessuna speranza in istituzioni, politica e media”
Sky-ilfattoquotidiano.it, 24 aprile 2016
video 1min27
“Non credo più nella giustizia. Nel suo nome sono stati fatti i peggiori crimini”.
Così lo scrittore Roberto Saviano ai microfoni di Sky TG24 manifesta tutto il suo pessimismo.
Nel corso del colloquio lo scrittore di Gomorra parla dell’evoluzione delle organizzazioni criminali.
“Non ho nessuna speranza nelle istituzioni, nella politica e nei media. Credo invece nella bontà, parola oggi impronunciabile, e nel rapporto uno a uno” (dalla presentazione, di Mario Ventriglia)
In Mixtura altri 6 contributi di Roberto Saviano qui
#MOSQUITO / Pesci, i due giovani (David Foster Wallace)
Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce annoiato che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: «Salve, ragazzi, com’è l’acqua?». I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: che cavolo è l’acqua?
*** David Foster WALLACE, 1962 - 2008, scrittore statunitense, da Questa è l’acqua, Einaudi, 2009, citato in sezione ‘Spie’, ‘D la Repubblica delle Donne’, 3 ottobre 2009.
#VIDEO / Questione morale (Enrico Berlinguer)
Enrico BERLINGUER, 1922-1984
politico, segratrio del PCI dal 1972 al 1984
Questione morale
Rai, 15 dicembre 1981
video, 0min49
Naturlamente tutti gli dicevano 'ma chi credi di essere'.
Ora siamo dove siamo. (mf)
In Mixtura altri 3 contributi di Enrico Berlinguer qui
martedì 26 aprile 2016
#VIDEO / Office Stretches (Bright Side)
Office Stretches
pubblicato da Bright Side, 21 aprile 2016
video 0min58
#LIBRI PREZIOSI / Capitani senza gloria, di Pierluigi Celli (recensione di M. Ferrario)
Pierluigi CELLI, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani"
Codice Edizioni, 2016
pagine 238, € 15,00, formato ebook € 5,99
Più vizi che virtù
Pierluigi Celli è stato un protagonista di primo piano del mondo dell'impresa di questi anni.
Può vantare un curricolo variegato in posizioni di top management in grandi aziende e organizzazioni, pubbliche e private; ed è un saggista fecondo, che ha più volte offerto in meditazione critica la sua esperienza lavorativa.
Non fa eccezione questo suo ultimo volume, Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani. Un libro non banale per i contenuti e originale per il taglio compositivo, in cui la forma saggistica si mescola felicemente con quella narrativa.
I due piani corrono paralleli, con passaggi alternati. Cambia la scelta espositiva e mutano anche i linguaggi: più sofisticato ed elaborato quello saggistico, più leggero, ironico e scanzonato quello narrativo.
Resta invece, comune, la provocatorietà dell'approccio, che tra i vizi e le virtù fa nettamente prevalere, nella tonalità generale, i primi sulle seconde, lasciando in chi legge la sensazione che le ombre si siano mangiate quasi interamente quella poca luce che rimane.
Mi pare che l'intenzione sia voluta: anche quando l'enfasi caricaturale pare eccedere nella illustrazione di 'idealtipi' umani negativi, sia a livello di capi che di collaboratori, l'obiettivo dell'autore, perseguito con ostinazione e ricchezza di dettagli, è quello di scuotere il lettore, inducendolo a pensare; e magari (sperabilmente), se chi legge sta sperimentando la fatica, e spesso le assurdità, del vivere organizzativo, per giunta dall'alto di posizioni di potere e responsabilità, costringerlo a qualche sana e violenta autocritica.
Sì, perché l'analisi è impietosa: precisa, minuziosa, e chi ha esperienza del mondo delle imprese, specie di grandi dimensioni, ci si ritrova. Scava in profondità e, per questo, forse, è fastidiosa; ma è argomentata, difficilmente contestabile, fatti salvi alcuni eccessi, che paiono voluti per marcare meglio le assurdità, i paradossi, le inefficienze. E basta leggere i titoli di alcuni capitoli. Come 'i vizi capitali del management': egocentrismo, arroganza, familismo, invidia, avidità, ignavia, miopia, vendetta. E, più oltre, dopo qualche divagazione in chiave di 'fiction' che per la verità ha ben poco di divagante, il capitolo su 'le virtù obsolete': rispetto, buon umore, generosità, cura, coraggio, equità, ritiro.
Insomma: ombre su ombre, ad essere moderati.
Ma, almeno per Celli, questa non è una novità. Ritornano infatti, ancora più insistentemente pungolanti che in altre occasioni (libri, articoli, convegni), pensieri acuti e taglienti, frutto di una visione che non intende concedere indulgenza, ma che si intuisce sorretta da un'etica forte e mai abbandonata: e tuttora, al termine di una carriera brillante, rimasta appassionata.
Tuttavia, anche se lo sguardo è certamente valutativo, va detto che sembra assente ogni compiacimento cinico nel descrivere aspetti tanto desolanti, e finanche inquietanti, della realtà lavorativa italiana. Non si intravvede, tra le pagine, il dito accusatorio di chi si sente esterno e innocente. Anzi, si intuisce il vissuto partecipe, e in qualche modo anche 'sofferente', di chi 'deve' rilevare ciò che accade. E peraltro questo è il prezzo da pagare se si ha come fonte e guida esclusiva il materiale fornito dall'esperienza diretta e non ci si vuole appoggiare a qualche teoria organizzativa preconfezionata che legga i fatti al posto nostro, magari comodamente piegandoli dentro un'ottica rassicuratoria.
Certo, mettendo insieme dati di realtà e brevi invenzioni narrative, che alleggeriscono la realtà nella forma, ma addirittura la rendono ancora più perturbante nella sostanza, c'è da chiedersi se restano squarci di speranza.
Qui ognuno, anche in base alla sua esperienza, oltre che alla quantità di 'pensiero positivo di cui (ancora) dispone, può decidere.
A questo proposito, però, può essere utile riportare alcune righe di 'post scriptum' con cui Celli mette punto alla sua indagine.
Ci sono i ringraziamenti d'obbligo ad alcuni manager con cui l'autore ha lavorato. Non sono molti, ma la citazione non sembra rituale: soltanto una decina sono quelli riconosciuti come esemplari. E il commento che chiude il libro pare non chiudere del tutto il futuro: «Loro per me restano il volto apprezzabile di una professione che può ancora essere presentata ai più giovani con la certezza di non offrire modelli adulterati.»
Si può concordare o meno sui nomi specifici dei manager citati da Celli, ma il valore degli esempi è indiscutibile e potente: se nessun modello può agire al posto nostro, avere modelli positivi è indispensabile per cambiare cultura: nostra o del contesto. Credo che ognuno, pensando alla sua esperienza o alle sue conoscenze, possa rintracciare qualcuno cui ispirarsi. E finché questo è possibile, qualche cambiamento, se si vuole, è possibile.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura
«
L’arroganza dei capi, alla lunga, è un vero attentato alla tenuta delle imprese. Concentrando ogni potere, ogni decisione e, in definitiva, ogni autonomia di pensiero al vertice, tutti gli altri vengono deresponsabilizzati dal partecipare. A raccogliere i risultati sarà solo chi si è ritagliato per sé il ruolo di unico depositario del destino futuro di tutti; per altro, senza sentirne veramente la responsabilità né offrendo garanzie.
L’esperienza di tanti anni in azienda può confermare, infatti, che molti degli insuccessi e delle défaillance organizzative delle imprese sono attribuibili a manager ambiziosi che hanno tradotto un normale sentimento, e un’aspirazione positiva come l’ambizione, in comportamenti autoassolutori e potenzialmente distruttivi.
Il capo arrogante non ha legami positivi con gli altri, non valorizza i collaboratori se non in funzione del suo aumento di potere e così facendo disarticola il tessuto di relazioni umane che stanno alla base dell’operatività quotidiana della sua struttura. Ma, soprattutto, fidandosi della costruzione che lui stesso fa del mondo che lo circonda, sull’onda delle certezze che si rafforzano artificialmente data l’assenza di un possibile contraddittorio, finisce quasi sempre, alla lunga, per prendere degli abbagli, selezionando le informazioni che sorreggono la sua visione delle cose e non vedendo più con lucidità quale sia la realtà.
L’arrogante, arroccato nel suo potere, ha più di un tratto in comune con il tipo del paranoico patologico. L’individuo potente e quello paranoico sembrano condividere alcuni aspetti caratteriali e pensieri simili: ciò che esiste ruota attorno alle loro vite, che sono allo stesso tempo problematiche e rischiose e dove si intrecciano manie di grandezza e angoscia per le minacce incombenti sulla loro posizione. Sentendosi (o convincendosi di essere) invulnerabile, il paranoico va alla ricerca dei propri avversari, non concependo altro rapporto che non sia di supremazia, e finisce con lo spiare segnali di pericolo che vede solo lui, arrivando anche a costruirli sulla base di indizi che non hanno nulla a che fare con delle reali minacce alla sua posizione.
(Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
La miopia manageriale è un vizio di corto respiro che mette a nudo anime aride e competenze insicure del mestiere o incerte sul proprio futuro. Vige la presunzione che “meno ci si impiccia” più si possa essere apprezzati, se non altro per il fatto che “si sa stare al mondo”. E oggi, coi tempi che corrono e i cambiamenti che incombono, veloci e voraci, il tentativo di nascondersi a molti appare come la scelta migliore per riuscire a salvarsi. Non vedere, in fondo, è una difesa della propria responsabilità e, sottraendosi, si cerca lo spazio per lavorare al coperto, così da confondere anche lo sguardo altrui. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
“Avere rispetto” oggi è spesso una condizione perdente, è visto come un atteggiamento arrendevole e indifeso, quasi una profezia negativa destinata ad autoavverarsi sui terreni infidi della carriera e, come tale, qualcosa da non considerare, essendo ben altri gli appigli della crescente presunzione di sé, con la spinta “ad arrivare” ad ogni costo, nella convinzione che per vincere non servano scrupoli né principi. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
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L’arroganza dei capi, alla lunga, è un vero attentato alla tenuta delle imprese. Concentrando ogni potere, ogni decisione e, in definitiva, ogni autonomia di pensiero al vertice, tutti gli altri vengono deresponsabilizzati dal partecipare. A raccogliere i risultati sarà solo chi si è ritagliato per sé il ruolo di unico depositario del destino futuro di tutti; per altro, senza sentirne veramente la responsabilità né offrendo garanzie.
L’esperienza di tanti anni in azienda può confermare, infatti, che molti degli insuccessi e delle défaillance organizzative delle imprese sono attribuibili a manager ambiziosi che hanno tradotto un normale sentimento, e un’aspirazione positiva come l’ambizione, in comportamenti autoassolutori e potenzialmente distruttivi.
Il capo arrogante non ha legami positivi con gli altri, non valorizza i collaboratori se non in funzione del suo aumento di potere e così facendo disarticola il tessuto di relazioni umane che stanno alla base dell’operatività quotidiana della sua struttura. Ma, soprattutto, fidandosi della costruzione che lui stesso fa del mondo che lo circonda, sull’onda delle certezze che si rafforzano artificialmente data l’assenza di un possibile contraddittorio, finisce quasi sempre, alla lunga, per prendere degli abbagli, selezionando le informazioni che sorreggono la sua visione delle cose e non vedendo più con lucidità quale sia la realtà.
L’arrogante, arroccato nel suo potere, ha più di un tratto in comune con il tipo del paranoico patologico. L’individuo potente e quello paranoico sembrano condividere alcuni aspetti caratteriali e pensieri simili: ciò che esiste ruota attorno alle loro vite, che sono allo stesso tempo problematiche e rischiose e dove si intrecciano manie di grandezza e angoscia per le minacce incombenti sulla loro posizione. Sentendosi (o convincendosi di essere) invulnerabile, il paranoico va alla ricerca dei propri avversari, non concependo altro rapporto che non sia di supremazia, e finisce con lo spiare segnali di pericolo che vede solo lui, arrivando anche a costruirli sulla base di indizi che non hanno nulla a che fare con delle reali minacce alla sua posizione.
(Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
La miopia manageriale è un vizio di corto respiro che mette a nudo anime aride e competenze insicure del mestiere o incerte sul proprio futuro. Vige la presunzione che “meno ci si impiccia” più si possa essere apprezzati, se non altro per il fatto che “si sa stare al mondo”. E oggi, coi tempi che corrono e i cambiamenti che incombono, veloci e voraci, il tentativo di nascondersi a molti appare come la scelta migliore per riuscire a salvarsi. Non vedere, in fondo, è una difesa della propria responsabilità e, sottraendosi, si cerca lo spazio per lavorare al coperto, così da confondere anche lo sguardo altrui. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
“Avere rispetto” oggi è spesso una condizione perdente, è visto come un atteggiamento arrendevole e indifeso, quasi una profezia negativa destinata ad autoavverarsi sui terreni infidi della carriera e, come tale, qualcosa da non considerare, essendo ben altri gli appigli della crescente presunzione di sé, con la spinta “ad arrivare” ad ogni costo, nella convinzione che per vincere non servano scrupoli né principi. (Pierluigi Celli, "Capitani senza gloria. Vizi e virtù dei manager italiani", Codice Edizioni, 2016)
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#SGUARDI POIETICI / Anche se sono un Dio (Pallada)
Vidi ad un trivio un bronzo del figlio di Zeus,
Prima menzionato nelle preghiere, adesso gettato via.
Sdegnato, dissi: “Dio di tre lune, che liberi dai mali,
Mai sconfitto, oggi invece stai steso per terra?”
Di notte il dio mi venne accanto e mi disse ridendo:
“Anche se sono un dio, ho imparato ad adeguarmi ai tempi”.
Prima menzionato nelle preghiere, adesso gettato via.
Sdegnato, dissi: “Dio di tre lune, che liberi dai mali,
Mai sconfitto, oggi invece stai steso per terra?”
Di notte il dio mi venne accanto e mi disse ridendo:
“Anche se sono un dio, ho imparato ad adeguarmi ai tempi”.
*** PALLADA di Alessandria, IV secolo, in Antologia Palatina, IX 441, citato in wikipedia, qui
In Mixtura 1 altro contributo di Pallada di Alessandria qui
#RITAGLI / Scuola, non è una gara (Daniele Novara)
(...) Come hanno dimostrato i più recenti studi neurobiologici e psicologici, alla base di un apprendimento efficace stanno processi che non c’entrano nulla con la competizione. Viceversa, la scuola efficace è quella che sa trasformare la classe in un laboratorio di interazione continua e sistematica fra i bambini, che lavorano, insieme, in funzione di un’esperienza concreta e condivisa. Questo metodo permette, attraverso la problematizzazione, di attraversare gli errori e utilizzarli ai fini dell’apprendimento, piuttosto che della competizione.
Purtroppo l’Italia, in modo particolare con la riforma Gelmini che ha riproposto i voti nella scuola primaria e addirittura la possibilità di essere bocciati sulla base di un’insufficienza numerica, è regredita in maniera significativa. Valutare continuamente con dei punteggi numerici quello che l’alunno sta facendo significa interferire in modo arbitrario con quel flusso mentale, cognitivo, ma anche sensoriale, grazie al quale il bambino acquisisce una competenza. Le valutazioni negative non producono alcun miglioramento nel rendimento scolastico, costituiscono soltanto una modalità punitiva e mortificante.
Se vogliamo una scuola diversa, una scuola dove i bambini innanzitutto stiano bene e collaborino nell’apprendere, dove non si scatenino prepotenza e prevaricazione, è necessario ridurre drasticamente le valutazioni. Per essere efficace, infatti, la valutazione deve essere evolutiva, ossia considerare gli alunni sulla base dei loro progressi graduali e non in maniera assoluta sulla base di test. Quello che importa non è verificare se un bambino conosca o meno un determinato contenuto in un dato momento, ma se il suo apprendimento sta procedendo e crescendo in maniera armonica. (...)
*** Daniele NOVARA, pedagogista, La scuola non è una gara, 'uppa.it', 10 febbraio 2016
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