Io amo i piccoli episodi. Perché spesso significano più dei grandi. E, se li 'vedi' e non 'ci passi sopra' e, anche soltanto un poco, li problematizzi, senza sprecare molti neuroni del cervello, indicano fenomeni e tendenze culturali molto più dei grandi discorsi dei grandi sociologi.
Ecco un piccolo caso: fresco fresco.
Parto con una domanda retorica: una di quelle che i latini introducevano con un 'nonne'. «Non è forse vero che» ogni giorno ci ripetiamo che stiamo vivendo il tempo della professionalità, della qualità, dell'attenzione, del rispetto dell'altro, e chi più ne ha più ne metta?
Bene.
LinkedIn. Che, per chi non lo conoscesse, è il principale network professionale del mondo (oltre 200 milioni di iscritti, di cui oltre 7 milioni in Italia).
Solita bachecha, simile a quella che hanno tutti i network. Anche se ormai, in LinkedIn, la bacheca è diventata uno spazio quasi esclusivamente di spamming a go-go.
Scorro la pagina e mi imbatto in una foto.
(Pseudo)Trasgressiva.
Una ragazza. In bianco-e-nero. Ha un dito sensualmente posato accanto alla bocca. E sta evidentemente godendo di un momento intimo particolare.
La rete ne è piena. E c'è chi si è specializzato: in facebook e twitter, per esempio.
Non è porno e non è arte, ma si fa notare. Come probabilmente voleva chi l'ha inserita.
E infatti anch'io mi soffermo. Odio da sempre i bacchettoni e difendo da sempre libertà di parola e di immagine, ma non posso non chiedermi, in un contesto come un network professionale frequentato da professionisti (non fotografi), cosa c'entri una foto come questa.
La foto fa da apertura a due righe, intitolate 'Il sesso': a tutte 'maiuscole'. Dunque, nello stile del web, a caratteri 'gridati'. E spiega (crede di spiegare) l'origine della parola inglese 'fuck'. Che, evidentemente, si ritiene sia una notizia 'golosa' che si crede non possa assolutamente mancare ai professionisti di un network professionale.
L'autore di queste righe, che tra l'altro si definisce 'giornalista' nella sua bio, scrive: «LinkedIn non è Facebook, ma permettetemi un post che dovrebbe fare riflettere sulla libertà sessuale di oggi. Nell'antica Inghilterra non si poteva fare sesso senza l'autorizzazione del Re (erano esclusi i membri – notare il termine molto opportuno – della casa reale). Quando si desiderava avere un bambino si doveva chiedere il consenso del Re che consegnava agli interessati un cartellone da affiggere alla porta di casa durante la pratica del sesso. Sul cartellone era scritto: "F.U.C.K." (Fornication Under Consent of the King).»
Io leggo e resto perplesso. Anche perché si parla di 'antica Inghilterra' (quando?) e di un re (quale?).
Controllo i commenti di altri 'colleghi'. C'è di tutto: e alcuni ringraziano per la 'notizia'. Però registro con interesse che il post ha suscitato partecipazione, visto che molti altri contributi, soprattutto se di contenuto professionale e non di autovendita di prodotti o servizi, passano ignorati. E ormai sono mesi che avviene.
Di internet possiamo dire tutto il peggio; e io, anche per età, non ho un'ideologia aprioristicamente favorevole alla rete e ai computer. Sono arrivato tardi al loro uso e continuo a restare assai guardingo verso il potere che gli abbiamo attribuito, anche perché conosco gli effetti collaterali di certa tecnologia avanzata. Ma credo che nessuno possa negare l'utilità di trovare di tutto soltanto con un dito e un tocco di mouse.
Dunque, clicco su google.
Neppure cinque secondi e la prima restituzione (subito, in alto nella pagina: senza neppure cercare) mi conferma la perplessità (vedi
qui): si tratta di una bufala. O, se vogliamo usare un termine più gentile, di una 'leggenda': neanche tanto metropolitana, sicuramente internettiana. Che gira da anni e, sembra, è risaputa.
Poiché amo le verifiche, cerco altri siti. Confermano la bufala.
In tutto ho speso non più di 10 secondi.
Mi sento preso in giro dall'autore della pseudo-informazione.
E poiché non sono capace di stare zitto, commento pubblicamente su LinkedIn che forse era il caso, se non altro, di usare il tono dubitativo nello 'sparare' la 'notizia'.
L'autore mi risponde così: «Io ho riportato in buona fede la notizia come l'ho trovata non essendo vivente ai tempi in cui l'episodio è accaduto. Essendo LinkedIn un luogo virtuale in cui si scrivono e riportano anche notizie altrui è buona norma farne un uso prudente evitando di utilizzarlo come strumento della verità assoluta. Delle polemiche inutili, poi, ne facciamo tutti volentieri a meno. Arrivederci.»
Replico con l'ultima mia battuta del dialogo: «Io non sono giornalista (come tu dici di essere), ma prima di scrivere mi documento. Bastava controllare su internet: 10 secondi. Come ho fatto io. E non si vendeva una bufala. Non è polemica. E' rispetto per chi legge.»
Il ping pong si chiude con l'ultima reazione del mio interlocutore, cui evito di rispondere e che qui evito di commentare: «Che sia una bufala o no questo non credo sia tu a doverlo sentenziare, e la notizia è tanto vera quanto falsa, né più né meno delle altre. Ognuno, nella sua libertà intellettiva, può liberamente ritenere falso o corretto ciò che legge. A meno che, chi la diffonde, non abbia un ruolo docente o formativo (come tu scrivi di essere). Per quanto riguarda l'essere giornalista: sono iscritto all'Ordine professionale dal 1985.»
Ho usato l'episodio come pretesto e non importa il nome di chi l'ha provocato: è uno dei tanti (troppi) da cui siamo circondati.
E che magari, nell'ambiente che ho frequentato per quarant'anni, dall'alto dell'ennesima convention (in questo caso, perché no, anche dal palco di un convegno su 'professionalità ed etica' giornalistica) inneggiano, appunto, alla professionalità.
Senza aver capito che 'professionalità' (questa parola-slogan di cui io non posso più sentire il fiato dell'aria vuota che sposta) è tante cose (come per esempio: precisione, rigore, conoscenza, controllo delle fonti...), ma senz'altro, soprattutto, rispetto dell'altro. In questo caso di chi legge.
Un'ultima considerazione sarebbe poi da fare: sui tanti (troppi) che abboccano.
Ma questo rimanda al 'pensiero critico' che latita. E su questo tema so che disturbo già troppo.
Stavolta, per rispetto di chi legge, sto zitto.
*** Massimo Ferrario, per Mixtura