sabato 15 ottobre 2016

#MOSQUITO / Ghiande, noi (James Hillman)

La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce. L’individualità risiede in una causa formale, per usare il vecchio linguaggio filosofico risalente ad Aristotele. Ovvero, nel linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso.
E questa forma, questa idea, questa immagine non tollerano eccessive divagazioni.
La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata un’intenzionalità angelica, o daimonica, come se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro interesse perché ci ha scelti per il proprio.

L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale. Perché, allora, è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura, dalla mia volontà e dalle mie azioni? Perché preferisco una polizza di assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza?
Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un Io forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una tegola sulla testa. Non vi sembra un miracolo andare a duecento all’ora in autostrada, la musicassetta al massimo volume, la testa da tutt’altra parte, e arrivare sani e salvi? Quale «sistema immunitario» veglia su di me, giorno dopo giorno, mentre ingurgito alimenti conditi di virus, tossine, batteri? La mia pelle formicola di parassiti, come il dorso di un rinoceronte con i suoi uccellini. A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti).

Nei tempi antichi, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene dal mancargli di rispetto.
Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli.
È più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento.
Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune, senza richiamarmi ad alcun guru, senza rendere testimonianza a Cristo, né invocare guarigioni miracolose. Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi? I bambini costituiscono la miglior dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza.
E non mi riferisco tanto a quegli interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che cadono da cornicioni altissimi senza farsi nemmeno un graffio, che vengono recuperati vivi da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare.
Queste urgenze del destino sono spesso frenate da percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si manifesta nella miriade di sintomi del bambino difficile, del bambino autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino «iper-», tutte espressioni inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità a comprendere.
Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause quanto delle vocazioni, non tanto delle influenze passate, quanto delle rivelazioni di un futuro intuito.
Riguardo ai bambini e alla loro psicologia, voglio che ci togliamo i paraocchi dell’abitudine (con l’odio mascherato che l’abitudine porta con sé). Voglio che riusciamo a vedere come ciò che fanno e che patiscono i bambini abbia a che fare con la necessità di trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene.

*** James HILLMAN, 1926-2011, psicoanalista, filosofo, Il codice dell'anima, 1996, Adelphi, 1997-2009. Citato da Mario Luigi Blandino, 'facebook', 7 settembre 2016, qui


In Mixtura altri 9 contributi di James Hillman qui

Nessun commento:

Posta un commento