mercoledì 20 luglio 2016

#LIBRI PIACIUTI / "Dolore", di Zeruya Shalev (recensione di M. Ferrario)

Zeruya SHALEV, "Dolore"
Feltrinelli, 2016
pagine 286, € 18.00, ebook € 5,99

Prosa, poesia, commozione
Zeruya Shalev, israeliana, autrice tra le più lette e tradotte al mondo, è al suo quinto romanzo. E anche qui la sua cifra stilistica si conferma e non delude.

Non ci entri subito, nella storia e nell'atmosfera.
Anzi, all'inizio, specie se sei al tuo primo incontro con la scrittrice, resti un po' disorientato, magari in qualche modo anche irritato, per il tono talvolta apparentemente enfatico, la scrittura avvolgente, il flusso continuo di pensieri, ricordi, introspezioni, rimeditazioni, che intrecciano i piani del presente e del passato e fantasticano sul futuro.
Poi, sempre più, non solo perché ti abitui al taglio particolare di questa autrice dalla penna incredibile (seducente, sensuale, spesso commovente, a tratti poetica), sei conquistato e ti trovi irrimediabilmente, e felicemente, dentro il fiume che scorre: e ti lasci sommergere, con pieno godimento, da sentimenti, emozioni, immagini che tessono la trama.
Certo, chi  cerca un 'romanzo di azione', con una vicenda 'forte', articolata e ben strutturata, deve rivolgersi altrove: dove il succedersi degli eventi, tra l'altro, si sposa in genere con un stile secco, nervoso, veloce, fatto di poche virgole e molti punti, e che registra con freddezza e precisione i fatti che accadono 'fuori' senza troppo curarsi dei vissuti e delle contraddizioni che stanno 'dentro' i personaggi. 
Qui invece l'ottica è capovolta. Il periodare è ampio e fluente, e ti ritrovi a navigare dentro frasi che si snodano lunghe e larghe, come onde che non danno tregua: spesso occupano la pagina intera, quasi ti travolgono, ma il gioco di punteggiatura srotola la matassa con ordine per cui è impossibile perdere il filo. E la costruzione dei periodi cresce densa di annotazioni introspettive, che rimandano, precisano, correggono, approfondiscono, talvolta si contraddicono, sempre problematizzano: è lo scavo interiore, quasi in diretta, che fa da guida e i fatti, che pure esistono e compongono la trama e ne alimentano la tensione, escono quasi come di sfuggita dal flusso di coscienza ininterrotto, che dilaga senza mai inutilmente intricarsi, apparire futile o annoiare.

Tutto ruota attorno alla protagonista, Iris, una donna di 45 anni, vittima una decina d'anni prima, in Israele, di un tragico attentato che le ha frantumato le ossa: esplode un autobus mentre lei in auto gli sta passando accanto e la donna si salva miracolosamente dopo un volo pauroso che la rigetta a terra, distrutta.
Quel dolore, terribile, si riaccende. Ma si allarga dal piano fisico al piano psicologico e diventa il tema-titolo e motivo conduttore del romanzo, che si sviluppa incrociando almeno tre situazioni.
Una è il riaffiorare casuale dal passato di Eitan e del grande amore adolescenziale con lui, sentito da Iris all'epoca come 'il' destino della sua vita: la fine improvvisa e irrazionale di questa insopprimibile passione, decisa dal ragazzo, aveva lasciato la giovane a pezzi, mai ricomposti negli anni. E adesso tutto sembra rinnovarsi e irrompe nei nuovi equilibri di vita trovati.
L'altra sembra essere la lenta progressiva rottura della relazione matrimoniale con Michi, nata anche come surrogato di quella primitiva delusione d'amore: un legame mai appassionato, ma sempre decorosamente alimentato da un affetto forse non solo di routine.
E la terza, infine, è l'esplosione della crisi nel rapporto con la figlia, Alma, inconsapevolmente sacrificata dalla madre nei suoi bisogni di bimba ancora piccola, prima nel lungo decorso, necessariamente appartato e un po' troppo autocentrato, del recupero fisico post-attentato e poi dalla intensa attività professionale di Iris come preside di successo di una scuola prestigiosa di Gerusalemme. Ora pare che Alma, cresciuta e andata a vivere per conto suo a Tel Aviv, sia in pericolo, in balia di uno pseudo-guru che si è improvvisato maestro spirituale e mentre promette alla giovane una vaga rigenerazione psicologica, di fatto la sfrutta come proprietario di un ristorante in cui lei è spinta a lavorare gratuitamente.
Insomma, tanti pezzi che, come le ossa che i chirurghi a suo tempo hanno dovuto rimettere insieme nel corpo della donna, vanno in qualche modo 'riaggiustati' attraverso un processo sofferto: ambivalente, contrastato, contraddittorio. E che colpiscono Iris almeno nei suoi ruoli di moglie e madre, forse di amante.
Iris sa, e comunque sicuramente, 'sente' che il prezzo, ma anche il farmaco che può curare, è il dolore. E il viaggio che si trova a percorrere certamente è una necessità da assolvere, più ancora che una scelta libera da attuare.
A protagonista e lettore non resta che sperare che questo viaggio, così mirabilmente seguito dalla scrittrice in ogni sua piegatura più intima, con sapienza psicologica e partecipazione affettiva davvero straordinarie, sia anche una catarsi.

Ultimo, ma non ultimo punto: un plauso alla traduttrice, Elena Loewenthal, abituale partner dei libri di Shalev. Anche senza conoscere l'ebraico, non è difficile immaginare la difficoltà intrinseca nel trasporre in italiano una prosa tanto ricca, elaborata, spesso straripante.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura
https://it.wikipedia.org/wiki/Zeruya_Shalev

«
“Che vuoi da me ora?”, e lui brontola, “mica tanto, in fondo, un poco di amore, un poco di calore, giusto sapere che ho una moglie in casa,” e lei dice, “sono stufa della tua autocommiserazione, non si sta parlando di te ma di me adesso, ho male e tutto quello che riesci a propormi è il sesso? Perché non si può avere un poco di empatia senza sesso?” 
“Non ti capirò mai,” protesta lui prendendosi la testa fra le mani, “c’è sempre qualcosa che non va! O ti lamenti che ti evito o che ti vengo troppo vicino!”, quand’ecco che in lei si risveglia la gentilezza che un tempo usava con lui, “è solo questione di tempismo, Michi, non sono regole generali di comportamento, a volte uno ha bisogno di vicinanza, a volte di distanza, stiamo insieme da cent’anni, non dire che non lo capisci.” 
“Ovvio che capisco, signora preside, solo che purtroppo di vicinanza ne vuoi sempre meno,” conclude a denti stretti, e lei, “ci sono diversi tipi di vicinanza, peccato che tu ne conosca solo uno,” e lui si tira su sospirando, sulla schiena nuda si riflettono gli spiragli della luce del mattino, formano delle piccole strisce che zebrano la pelle, “ci sono anche diversi tipi di distanza,” dice ancora lui, “peccato (Zeruya Shalev, "Dolore", Feltrinelli, 2016)

Eccola di nuovo fuori per le strade, l’umidità schiaffeggia come uno strofinaccio usato e il fumo delle macchine attacca in gola, lei si dirige al parcheggio, è così agitata al pensiero di vederlo che il caldo non la disturba, al pari delle inquietanti notizie alla radio della macchina e la cifra esorbitante del parcheggio. L’attesa dell’incontro la tiene sospesa sopra la realtà, e mentre si dirige all’hotel in cui proprio quest’oggi si svolge un congresso sul tema del dolore neurologico lei capisce tutt’a un tratto che proprio così si sente sua figlia adesso, perché quest’uomo, proprietario di uno squallido locale a sud della città l’ha portata via dalla noia della quotidianità e le ha offerto un cambiamento, un salto acrobatico sopra la realtà della sua vita, basta con lo schermo della televisione, quello del computer, e invece montagne russe di giorno e di notte, e perciò lei è imprigionata, ipnotizzata dalla tremenda e travolgente esperienza che tutt’a un tratto si dispiega sotto i suoi occhi, da un volto diverso che non ha trovato nello specchio, ma lei, la madre che l’ha messa al mondo, lei deve insegnarglielo, così come le ha insegnato a parlare, camminare, ad attraversare sulle strisce, perché noi dobbiamo restare attaccati alla realtà per quella che è, dobbiamo scendere a patti con lei, scendere a patti con il caldo e l’umidità, con la noia e il tran tran, con le tariffe del parcheggio e le notizie, solo lì siamo liberi. Deve insegnarglielo, anche se solo adesso lo ha capito, perché quella che sembra una vita sopra la realtà è di fatto schiavitù. (Zeruya Shalev, "Dolore", Feltrinelli, 2016)

C’è forse un’altra buona novella che procura dolore e felicità come il parto, quando fra le doglie non si dimentica per un attimo che si sta per dare la vita. 
Perché capita che non basti una volta sola, capita che dobbiamo dare la vita ai nostri figli più volte, badare al lumicino della loro anima, aiutarli a scegliere la vita, lo stesso dono che abbiamo dato loro anche se non l’avevano chiesto, questo sta cercando di fare ora e perciò ha così male, così come quando aveva partorito sua figlia, con quel suo giovane corpo che si contorceva nel travaglio per liberarsi dalla creatura che se ne stava beatamente dentro le sue viscere. Che difficile era stata quella separazione, anche se aveva portato a un incontro, che difficili sono le separazioni che la natura ci impone, che segnano per noi il tempo della gravidanza, della crescita dei figli, della loro vita autonoma, a volte financo dell’amore. (Zeruya Shalev, "Dolore", Feltrinelli, 2016)
»

In Mixtura le mie recensioni a #LibriPiaciuti qui

Nessun commento:

Posta un commento