domenica 3 gennaio 2021

#LINGUA_ITALIANA / Il 'neostandard' italiano (Vera Gheno)

 Al di là di quanto studiato a scuola, insomma, il parlante tenderà [nella sua lingua di tutti i giorni] a non usare costrutti, parole, tempi e modi verbali, congiunzioni ecc. complessi e sentiti in qualche modo come poco utili o poco economici. 
Questo fenomeno diviene evidente tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, tanto che negli Ottanta i linguisti sentono il bisogno di portare a sistema queste novità, che non potevano più essere considerate semplicemente una deviazione dalla norma, data la loro enorme diffusione nella lingua realmente usata dalle persone. 
Questo «nuovo italiano», che non corrisponde perfettamente alla norma studiata a scuola (fondamentalmente uguale a sé stessa da secoli), ma che ormai non si può dire sbagliato, viene definito italiano neostandard da Gaetano Berruto, dell’uso medio da Francesco Sabatini e tendenziale da Alberto Mioni. 

Comunque si decida di chiamarlo, il «nuovo standard» comprende fenomeni come la semplificazione del sistema verbale, con caduta in disuso di tempi come il trapassato remoto o il futuro anteriore, l’impiego del presente pro futuro (come in "domani vado" invece di "domani andrò") o dell’imperfetto di cortesia ("volevo del pane" invece di "vorrei del pane") o, ancora, dell’indicativo al posto del congiuntivo ("penso che è una buona idea"); la semplificazione del sistema pronominale, con lui, lei e loro come soggetto invece di egli, ella, essi (chi è che impiega mai egli «dal vivo», in una conversazione reale, fuori dall’astrazione dell’ambiente scolastico?); l’oblio delle congiunzioni più complesse come affinché, acciocché, poiché, tutte tendenzialmente sostituite da perché. In più, emerge una serie di fenomeni tipici del parlato, come le dislocazioni a destra e sinistra ("il biglietto l’ho preso ieri") o il riflessivo apparente ("mi bevo un caffè") o quel "ci" che non si sa mai come scrivere ("ci ho fame/c’ho fame"). Forse l’esempio più noto di italiano neostandard, che nonostante la sua diffusione fa tuttora venire i brividi alle persone più sensibili, è il testo della canzone Ragazzo fortunato di Lorenzo Jovanotti Cherubini, che contiene versi come "sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno" (un bell’esempio di "che polivalente", laddove sarebbe piú corretto "non c’è niente di cui ho bisogno") oppure "a me mi fai impazzire" (il già discusso pleonasmo, in realtà comunissimo nel parlato: "mi fai impazzire" ha sicuramente un impatto molto differente, non comunica lo stesso pensiero nello stesso modo). 

Che cosa pensiamo di questo neostandard? Per molti è indigeribile: che si avallino queste devianze dalla norma è visto come una specie di «alto tradimento» nei confronti della «bella lingua». Per i linguisti è segno della vitalità dell’italiano, del fatto che finalmente sia usato da una grande quantità di parlanti. Certo, è un problema se una persona non riesce a elevarsi da questo livello di uso della lingua ad altri più formali; per ora, diciamo che l’affermarsi del neostandard mostra, senza ombra di dubbio, che l’italiano è diventato la lingua degli italiani, e che questo ha provocato una serie di cambiamenti molto veloci resi ancora piú evidenti dal fatto che per secoli la lingua dove il sì suona era rimasta di fatto imbalsamata, non sfruttata pienamente. 

Occorre ricordare, ci piaccia o meno, che le lingue non sono solitamente create a tavolino, e che il sistema della norma, pur dovendo senz’altro molto alle indicazioni dei linguisti, si realizza prima di tutto tramite l’uso vivo delle persone, come si è già detto.

*** Vera GHENO, sociolinguista, Potere alle parole, Einaudi, 2019, estratto da facebook, 2 gennaio 2021, qui


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