Massimiliano CACCAMO
"Il trasferimento della commozione"
Edizioni Kindle, 2021
pagine 282, € 30,16, ebook € 8,22
Bisogna tenere insieme i pezzi
Questo testo di Massimiliano Caccamo, qui esordiente in campo narrativo, ma già autore di saggi in tema di formazione, oltre che consolidato consulente innovativo nell'area dello sviluppo delle organizzazioni, raccoglie frammenti di ricordi che costruiscono il 'memoir', largo-e-lungo, di una vita: dalla adolescenza alla maturità ormai raggiunta, prossima alla terza età.
Sono quasi trecento pagine che scivolano facili e stuzzicanti e invogliano a non depositare il libro: capitoli brevi, tutti rigorosamente 'divaganti' e mai monotoni, spesso spiazzanti, affollati di episodi generati dal prorompere dal passato personale dell'autore di fotografie, pregevoli esteticamente oltre che per la loro originalità, che hanno per oggetto persone e paesaggi, alle quali è ridata vita attuale, perché siano al servizio di un puzzle tanto insolito quanto invitante.
Si tratta di decine di scatti fotografici cui corrispondono altrettanti scatti testuali: affidati a una prosa asciutta, agile, svelta ma ben curata, spesso ironica, toccante pur nella sua leggerezza e sobrietà.
Il fiume di squarci che compongono la vita dell'autore, nei suoi dettagli di normalità ma anche di sana bizzarria, scorre gradevole, talvolta impetuoso, come un torrente di montagna. Anche 'disordinato': perché l'ordine con cui l'autore mette in fila i ricordi, fatto di lanci, rilanci e richiami, se evita la routine di lettura, crea nel lettore un impegno piacevole, ma non piccolo, nel tenere assieme le varie tessere del racconto.
Ma ci sono anche ampi momenti di approfondimento: e allora il fiume si allarga e si acquieta e chi legge si gusta gli aneddoti, i riferimenti anche dotti di citazioni letterarie, i rimandi agli artisti, soprattutto di jazz e di cinema, i pensieri e i commenti dell'autore, magari opinabili, ma sempre stimolanti. E si convince ad accogliere con coinvolta e felice passività il filo che gli viene abilmente dipanato davanti, anche quando si slabbra fino a rompersi per poi essere ricucito e ripreso: impara a subire con piacere i rimandi e i cambi di piano congegnati per tenere alta l'attenzione e trova motivazione a confrontarsi con riflessioni, mai banali, sul mondo e sul vivere. E, ahimè, pure sul morire.
Sì, anche sul morire.
Ma, attenzione, nessuna lagna, nessun autocompiacimento: il dolore (la morte dei vecchi genitori a distanza di due giorni l'uno dall'altro, in quella Bergamo del 2020 dannata dal Covid; l'impossibilità di assisterli in ospedale negli ultimi giorni; la restituzione dei loro corpi in due urne funerarie, una delle due per giunta con il nome sbagliato) fluisce qua e là nelle pagine, ma rimane sottotono: non tracima mai. Si 'trasferisce', come appunto indica il titolo, nel fuoco d'artificio dei ricordi: l'adolescenza, gli amici, le vacanze, i viaggi più o meno solitari nel mondo, le conoscenze avviate e smarrite, i fotogrammi che restituiscono l'hobby della musica, dell'arte, delle letture.
Insomma, chi si immaginasse un bagno in un'atmosfera triste e malinconica, suggerita dal drammatico evento eccezionale che dà la stura alla memoria, rimarrebbe deluso. Anche lo stile del racconto, vivace e brioso, condotto per frammenti, punta a 'di-vertire': nel senso, etimologico, di una distrazione intelligente, sana, feconda. Che riesce anche a far pensare, senza mai tramutarsi in noiosa pensosità e sterile amarcord.
Forse un messaggio più o meno consapevole che esce dal libro, anche in linea con lo stile frammentato con cui è costruito, è che, per vivere la vita, bisogna tenere insieme i pezzi. Specie quando si sono subiti colpi che ci hanno messo inesorabilmente alla prova.
Certo non è facile. E non è garantito.
Ma se lo si fa (lo si vuole fare e ci si riesce), se ne viene a capo: non solo perché si è riusciti a difendersi dalle fisiologiche batoste che fanno parte del vivere, ma perché, con la fatica di un attivo e fecondo rimembrare, si è conquistato anche qualche sprazzo di nuovo e legittimo godimento.
Come è per questa lettura: anch'essa costruita a pezzi. Con pezzi che richiedono di essere ricostruiti e tenuti insieme grazie a uno sforzo di abile riconnessione. Solo così se ne gusta il sapore d'insieme.
[Post Scriptum - Non posso esimermi dal confessare un 'conflitto affettivo' con l'autore, che conosco da parecchi lustri. In questi casi (mi è già capitato) adotto una soluzione semplice: se non ne sono convinto, evito di pubblicare apprezzamenti che nessuno mi obbliga a pubblicare. In questa occasione mi sono limitato a seguire una prassi adottata da tempo e mai infranta. Dei tanti libri da stroncare, non parlo. Di quelli che mi sono piaciuti, indipendentemente da chi li ha scritti, amico o no, agevolo il passaparola. E' il mio piccolo contributo agli indici di lettura: si legge tanto poco, in Italia, che se si può invogliare alla lettura, almeno io ci provo.]
*** Massimo Ferrario, per 'Mixtura'
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Citazioni dal libro
Da dietro riuscivo a scorgere il collo dell’uomo, sudato, con una giugulare paonazza pulsante. A un certo punto il pullman inizia a traballare. L’autista, non si sa come o perché, inchioda. “Perché ti sei fermato, coglione?” Gli urla uno dei più agguerriti. Lui, apre la portiera, scende nella nebbia e inizia a vomitare. Il gruppo di testa si quieta per un attimo, scende a sua volta e soccorre il pover’uomo. Poco a poco scendono tutti. Scendo anch’io. Mi accorgo che il pullman è fermo a un metro circa da un dirupo, sopra un fiume in piena. L’autista si era accorto appena in tempo che era arrivato alla fine di una strada interrotta per lavori.
Qualcuno ha detto che la tragedia è un paese straniero in cui si parla una lingua sconosciuta. Vorresti dire ma non riesci. Vorresti capire e non capisci. E se tu non capisci naturalmente nessuno può capire te. Anche se avessi la fortuna di avere intorno solo persone “che sanno cosa significa” non cambierebbe nulla. Nessuno sa cosa significa per te.
“Ci sono uomini di braccia e uomini di mente” commentava, prendendomi deliberatamente per il culo. C’era da portare della roba in cantina. Una cantina di cui mi avevano dato da poco la chiave ma che non avevo mai visitato. Siamo scesi nel seminterrato insieme. Aperta la porta di accesso ci troviamo di fronte un dedalo di corridoi, ciascuno con un numero imprecisato di cantine. Sulla chiave non c’era scritto nulla. “E adesso come la troviamo? Dovrò telefonare all’amministratore lunedì, figurati se lo trovo di domenica”. “Aspetta qui” mi dice e sparisce nel dedalo davanti a noi. Dopo 5 minuti mi chiama e lo raggiungo più avanti. “Prova con questa”. “E tu come fai a saperlo, sono tutte uguali” “Prova”. Infilo la chiave nel lucchetto e, magicamente, la porta si apre. “Ma come hai fatto?” “Guarda i lucchetti, sono tutti sporchi tranne un paio. Questi sono stati usati di recente e dato il tipo di chiave questa era quella giusta”.
Un bar dove entrava ogni tanto “il matto del villaggio” che, con un bicchiere di vino in mano e la voce impastata, sentenziava: “Dio è infinitamente misericordioso”. Tutti gli volevano bene e lo lasciavano in pace a bersi il suo bianchino. Ma a me una volta è venuta voglia di interagire. E all’ennesimo “Dio è infinitamente misericordioso” mi sono avvicinato e gli ho chiesto “Ma è sicuro?” E lui, con l’occhio vacuo mi ha risposto: “Ma, in effetti sono perplesso…”
Una sera di molti anni prima, ed era pressoché inevitabile trovandomi a Lisbona, andavo con un altro amico in cerca del Fado. Il locale più noto era strapieno e allora ci siamo infilati in un altro, molto più piccolo e defilato. L’’interno era quello di una piccola taverna, niente palco, niente attrezzature musicali. Abbiamo ordinato da bere, il tempo passava e non c’erano tracce della musica. Ma di colpo un uomo e una donna seduti ad un tavolo come fossero due comuni avventori, hanno cominciato a cantare. Più avanti, sempre all’improvviso, da un tavolo diverso e più lontano una terza voce si è aggiunta. Andavano via via creando, fidando solo sulla voce e la buona sonorità della sala, un dialogo stereofonico che rimbalzava nei tre punti della stanza. Non credo esista una musica più triste e suggestiva del fado portoghese. Alla fine dello spettacolo siamo usciti nell’aria calda della serata agostana a chiacchierare e ad assaporare quelle emozioni. Fermo sul lato opposto del marciapiede, girando gli occhi, ho riconosciuto uno dei cantanti che usciva dal locale, guardava verso l’alto e sorrideva, appoggiato alla balaustra dell’ingresso. Respirava l’aria a pieni polmoni, cercava con lo sguardo la luna e aveva dipinto in volto un’espressione di beatitudine. Poi un altro dei cantanti l’ha raggiunto e l’ha aiutato a rientrare. Solo allora mi sono reso conto che era cieco. Quando il tornado si è scaricato a terra con tutta la sua violenza ho spesso ripensato a lui.
Anni prima durante il mio terzo viaggio americano, facevo il coast-to coast su un pullman in compagnia della mia fidanzata dell’epoca. Avevo stretto amicizia con la guida, un americano che parlava molto bene la nostra lingua e che se ne intendeva anche un bel po' di formazione, visto che durante i mesi invernali faceva l’insegnante. Si chiamava Michael. Una sera, seduti d'assoli a un bar, mi è venuta voglia di fargli la seguente domanda: “tu che vedi negli anni decine di comitive di italiani, spagnoli, tedeschi ecc. se dovessi dirmi qualcosa sugli italiani? Dai, sbilanciati, non farò la spia”. “Vedi quelli che sono entrati ora nel bar? Sono quelli che hanno litigato per una settimana con quelli dietro per la precedenza sui posti a sedere” (NB: i posti davanti sono sempre più ambiti su i bus che affrontano le lunghe distanze, perché offrono una miglior visuale del panorama che scorre e spesso ti danno più spazio per le gambe. Per questo motivo, dopo ogni tappa, Michael cercava di far ruotare democraticamente i passeggeri che desideravano un posto in prima fila). “Bene, loro sono gli stessi che quando abbiamo imbarcato il ragazzo paraplegico si sono fatti in quattro per aiutarlo a salire e a scendere con la carrozzina ad ogni singola sosta. Se mi chiedi un parere sugli Italiani te lo do: Il meglio e il peggio. Qualche volta anche nella stessa persona”.
A un paio di km dalla frontiera si materializza dal nulla una Volkswagen grigioverde che mi fa cenno di uscire su una piazzuola di sosta. Il dialogo che ne sarebbe scaturito fra me e il “vopo” che era alla guida avrebbe avuto una “cifra” tutta sua. Né io ne lui avremmo mai spiaccicato parola. Sceso dalla macchina prende un pezzo di carta e una matita. Disegna tre cerchi e me li fa vedere. Non capisco ma non oso interferire. Poi, dentro il primo cerchio scrive 80. Comincio a capire. Dentro il secondo cerchio scrive 140 (la mia velocità…). Dentro il terzo 60. Ho un attimo di indecisione, poi lui scrive accanto DM. Che sta per deutsche mark. Era la cifra che dovevo pagare. Pari, fra l’altro, alla differenza fra 80 e 140. L’italiano si sa prova comunque a negoziare. Questa volta, senza un linguaggio al seguito, era tutto più difficile. Ma ho provato comunque lo stesso col linguaggio dei segni. Anche lui mi ha risposto col linguaggio dei segni. Mostrandomi col dito il cannone di un carrarmato che spuntava dalla boscaglia. Che vi devo dire. Ho pagato.
Arrivato dopo un lungo viaggio aereo da Milano avevo un appuntamento con lui per le due del pomeriggio. La segretaria mi fa aspettare in sala riunioni. Alle 15 non si era ancora visto. La segretaria apre le mani, sconsolata, indicando che era chiuso in ufficio e non voleva essere disturbato. Alle 16 decido di farmi chiamare un taxi e tornare in aeroporto. Giunto in loco trovo ad attendermi una macchina aziendale con un autista che, fattosi riconoscere, mi chiede di rientrare con lui, perché il direttore mi aspettava. Chiamiamolo al telefono, replico io. Breve trascrizione della telefonata. “Cosa fa Caccamo?” “Torno a Milano”. “E perché torna a Milano?”. “Perché Lei non ha intelligenza sociale, ingegnere”. Due secondi due di attesa e poi “Torni, che stasera la invito a cena a casa mia”. Abbiamo parlato tutta la sera di tante cose e alla fine eravamo d’accordo, nel merito, sui colpi di martello con cui aveva scolpito l’Azienda in quell’aula di formazione. “Si sarà però fatto un bel po’ di nemici…”. “Non lascio una settimana quest’azienda in crisi per fare diplomazia”. “E allora poteva anche lasciarmi prendere quell’aereo”. “E perché? Aveva ragione Lei. Spesso manco di intelligenza sociale: di questo volevo discutere”.
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