C’è un secondo mistero, dietro al mistero mai svelato della gigantesca evasione fiscale italiana: dove finiscono i soldi. Ma almeno questo arcano è più facile da risolvere. Perché una grossa fetta se ne va all’estero. Con destinazione prevalente nei Paesi dove i forzieri delle banche sono più solidi. Lì si mischiano con altri denari, quelli di provenienza maleodorante. Quanti, nessuno lo sa con certezza. Devono però essere veramente tanti se è vero che in 15 anni, grazie ai tre scudi fiscali dei governi Berlusconi e alla voluntary disclosure («collaborazione volontaria» è la traduzione dell’Agenzia delle entrate) del governo Renzi sono stati regolarizzati, cioè ripuliti, 245 miliardi e mezzo di euro: 141 nella sola Svizzera. A un costo, ecco lo scandalo ancora più grande, assolutamente ridicolo per chi li aveva illecitamente esportati. Il fisco ha incassato 11,7 miliardi: in media il 4,7%, un quinto dell’Irpef applicata ai contribuenti che non arrivano a guadagnare più di 1.153 euro al mese, calcolando naturalmente anche la tredicesima. Si va dal 2,6% del primo scudo al 5,4 del secondo, fino a uno stratosferico 6,5 della voluntary disclosure. Una miseria. Che induce il sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, fra i massimi esperti di evasione e riciclaggio, a commentare così questo dato contenuto nel suo documento di 50 pagine apparso mercoledì scorso su Repubblica: «Si tratta di un’aliquota ampiamente inferiore a quella sopportata dai contribuenti fedeli per imposte sui redditi Irpef, Irap e Iva negli stessi periodi in cui gli altri hanno inteso evaderle, investendole all’estero con rendimenti sicuramente idonei a far fronte all’esigua imposta richiesta per chiudere la partita con il Fisco». Che bel «marameo!» a quei fessi che ancora si ostinano a pagare le tasse… E qui il rapporto di Di Vizio apre un altro scenario inquietante. L’evasione fiscale è un animale in continuo movimento. Le somme spedite illegalmente all’estero producono a loro volta altra evasione: le imposte non pagate sui rendimenti finanziari. Lo studio dell’Ocse più recente al riguardo consente di stimarne le dimensioni in una misura compresa fra 49 e 99 miliardi di euro. Sommata ai 111,7 miliardi dell’evasione fiscale nazionale si può arrivare così anche a 210 miliardi l’anno. E Di Vizio ammonisce a considerare la stima «prudenziale». Per difetto.
Ma come lo Stato italiano non ha mai fatto una seria lotta all’evasione, così non ha mai contrastato con serietà l’esportazione illecita dei capitali. Dice tutto a proposito di questo inaccettabile lassismo la storia dell’Anagrafe dei rapporti finanziari. Ideata nel 1991 per stringere i bulloni dei controlli, doveva entrare in funzione con un decreto ministeriale da emanare entro 60 giorni. Sfornato invece placidamente dopo dieci anni, non ha avuto alcun seguito. Perciò l’Anagrafe costata 10 milioni, e che pure formalmente sarebbe operativa dal 2009, non è stata mai utilizzata. Con il risultato che non esiste una mappatura dei contribuenti a rischio: intuitivamente, anche i più predisposti a trasferire soldi nei paradisi fiscali.
Per non parlare delle verifiche alle frontiere. Nel 2016 ne sono state eseguite 11.126, ben 5 mila più del 2010, con la scoperta di 4.804 violazioni, in aumento di circa 1.500 rispetto a sei anni prima. I sequestri però sono andati appena oltre i 5 milioni di euro, contro i 91 del 2010. E colpisce, sottolinea Di Vizio, non solo l’immensa sproporzione fra questi e i capitali scudati, ma anche l’esiguità, in rapporto alle somme condonate, delle dichiarazioni valutarie relative ai soldi legalmente usciti dall’Italia: 3,6 miliardi nel 2015. Meno del 6% di quanto regolarizzato con la voluntary disclosure. Ancor più misero al cospetto della massa sottratta al fisco, è il bilancio dei controlli sui passaggi interni di carta moneta. Basti dire che le indagini antiriciclaggio hanno portato alla luce 120 violazioni nel 2012, 60 nel 2013, 44 nel 2014.
Doveroso a questo punto tirare in ballo le responsabilità della politica. Nessun altro Paese ha consentito ai contribuenti infedeli di sanare in un modo così sfacciato situazioni tanto scandalose, regalando anche l’immunità sostanziale per reati spaventosi come il riciclaggio del denaro sporco, considerando che la segretezza assoluta concessa per i capitali scudati non consente di escludere la presenza, fra questi, dei profitti criminali. E un regalo così generoso non ha contribuito a far cessare il vizietto. Anzi.
Sazio dei 79 miliardi emersi con i primi due scudi fiscali 2001-2003 l’ex superministro dell’Economia Giulio Tremonti mostrò i denti agli spalloni annunciando l’intenzione di mettere le telecamere alla frontiera con la Svizzera. Mai viste. Al loro posto, passati sei anni, uno scudo ter. E di miliardi ne saltarono fuori altri 104. Il ministro si mostrò orgoglioso: «È una colossale manovra di potenziamento della nostra economia». Che però non lasciò traccia. Altri sei anni, ed ecco la voluntary disclosure. Una specie di scudo quater, con la particolarità che non si doveva dichiarare la provenienza dei soldi se intascati prima del 2010: una graziosa e impenetrabile foglia di fico. E ancora 62 miliardi, dei quali quasi 42 dalla Svizzera e per metà riferibili alla Lombardia.
Con la crisi o senza il fiume d’oro da quella Regione alla sponda elvetica resta in piena. I dati ci dicono pure che il 98,9% delle pratiche, ovvero 128.253, riguarda persone fisiche. Tutti pensionati lombardi, risparmiatori involontari di soldi accumulati all’estero dopo anni di duro lavoro, e ovviamente prima del 2010, secondo il profilo che sembra tracciare il gettito di questa ennesima sanatoria? Siamo d’accordo con Di Vizio: non è credibile. È una favoletta buona solo per un «fisco rigoroso per chi esiste e del tutto evanescente per gli invisibili, che restano nascosti dietro impossidenze apparenti ed emergono solo con le sembianze altrui». Quelle dei prestanome.
*** Sergio RIZZO, giornalista e saggista, 'facebook', 6 ottobre 2017, qui (con il titolo Come ti smacchio l'evasore, la Repubblica', 6 ottobre 2017)
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