Un’immobilità raggelante - Quando l’ho conosciuta era immobile e il suo corpo si era impadronito di un peso che era solo pesantezza come se avesse voluto espandersi il più possibile per ottenere lo spazio e l’importanza che non aveva. Ogni tipo di movimento pareva procurarle fastidio e il muoversi era ridotto al minimo; così anche l’espressione mimica era praticamente inesistente e, quando si mostrava, rivelava solo disagio e malessere. I suoi grandi occhi sembravano persi dentro il loro stesso azzurro ed evitavano accuratamente di incontrare altri occhi rendendo a chi l’osservava la sensazione d’essere trasparente.
L’assenza di movimento, l’inafferrabilità dello sguardo corrispondevano ad una specie di silenzio stregato : non parlava, non reagiva, non sceglieva, non rideva, non piangeva, non imparava, sembrava non ascoltare. Nella stanza dei giochi non mi degnava di uno sguardo : i suoi occhi, come lei, erano lontani, rivolti alla finestra, al fuori dove forse avrebbe voluto essere o ad un altrove dove si trovava sempre rispetto a sé.
Impassibile, impermeabile, irraggiungibile, mi trasmettava un grande senso d’angoscia, di inutilità, di stanchezza. Sembrava congelata in un lungo sonno dal quale non poteva/non voleva svegliarsi ed esso l’avvolgeva completamente alimentando il ritiro, il silenzio, il disinvestimento interiore.
L’incanto della voce - Non potevo credere che tutto fosse silenzio (e infatti non era così) ma ho dovuto poterlo pensare per arrivare a capire che c’era in lei una forte vibrazione che, nella fissità esibita, si muoveva dentro esprimendosi in sordina. Lei componeva piccolissimi, ammalianti gesti, discreti e lenti, che producevano una sonorità quasi impercettibile ma molto avvincente. Catturata dall’incanto della sua comunicazione, dalla sua musicalità interiore le ho risposto con la stessa modalità e quando ha cominciato a guardarmi le labbra ho usato la voce, come se fosse un oggetto qualsiasi e ho scoperto che le piaceva anche se continuava a tacere.
Si “appoggiava” alla mia voce, rimanendo sempre ancora distante da me. Un lavoro lungo e certosino quello di accordare la mia voce alla sua comunicazione : doveva essere buona, sicura, non richiedente. Per lungo tempo dalle modalità tranquillizzanti, neutre, morbide della mia voce s’è fatta cullare e contenere. Le piaceva la mia voce ma non doveva dire cose troppo difficili (quelle didattiche erano escluse), ma non devevano essere neppure impegnative, significative o importanti. Mi sono lasciata guidare da lei per imparare come dovevo usare la voce e lei mi ha insegnato. Doveva mantenersi a un volume bassissimo, prendere la cadenza dell’elenco, non prodursi in sbalzi di tonalità, non avvicinarsi mai all’intonazione della domanda (che resta sospesa e attende una risposta), doveva servirsi il meno possibile delle voci verbali, meglio se all’infinito, cioè senza “persona” e “senza tempo”. Poteva utilizzare sostantivi – mai astratti – per dare un nome alle cose concrete, qualche avverbio o un intercalare neutro, pochi aggettivi ma mai compromettenti. La mia voce doveva scavare sottovoce e portare alla luce sonorità ovattate e dolci che solo così rivestite potevano contenere la definizione.
Per lungo tempo ho camminato come una non vedente tra contenuti e significati che non potevo accostare e per tanto tempo mi sono sentita sola e inutile. Poi un giorno, quando non ne potevo più, lei s’è avvicinata… Io sentivo male ad un braccio e assieme al dolore, “all’uni-sono”, il quadro di un sogno s’è aperto nella mia mente: tenevo con il braccio, stringendola forte con la mano, la bimba appesa sopra un precipizio. E ho visto la fatica …
Lo snodo - Ho visto la mia fatica nel tenere la bimba ancorata alla vita con la mia stessa vita. Una stanchezza micidiale mi s’è rovesciata addosso e un sonno inarrestabile m’ha presa e messa al tappeto. Ma due grandi occhi azzurri per la prima volta mi guardavano e la sua manina batteva sul mio braccio – delicata ma perentoria – e avrei giurato che “teneva il tempo”. Finalmente teneva un tempo. Finalmente tra di noi c’era un tempo scandito. A me è venuta in mente “Yellow Submarine”.
E’ la sua la fatica, cercavo di pensare… è la strada che porta al sonno, provavo a dirmi cercando di raccogliere uno straccio di forze.
Sul foglio è comparso un mondo a matita “sommerso”, buio, cieco, senza persone. Le ero grata: dal precipizio dove si trovava era lei ad aiutarmi. Sono riemersa e ho disegnato un piccolo tenero sottomarino (non mi è mai più venuto così bene) che lei ha prontamente colorato di giallo.
Nuovi giochi - In classe ha smesso di “seguire/imitare” la compagna di banco con la quale aveva un rapporto quasi simbiotico e ha smesso nella stanza dei giochi di guardare alla finestra : non voleva più essere altrove, si è affidata teneramente alla mia voce. Abbiamo cominciato a giocare, giochi ancora muti come nascondino, prima con oggetti poi con noi stesse, giochi che sono durati a lungo infittendosi, piano piano, di segnali, rimandi, richiami. E lei finalmente si muoveva. All’inizio i giochi sembravano possedere solo una ritmicità regolare e coinvolgente, poi anche una specie di melodia e questo quando le voci hanno cominciato a intrecciarsi, a inseguirsi, ad aspettarsi. L’intensità, la confidenza, l’amore crescevano e rendevano il nostro rapporto solido e importante.
Il gioco si è evoluto ed è diventato gioco di ruoli : lei ha smesso di copiare in classe e ha preso a scrivere per conto suo con pochi errori e cambiando letteralmente calligrafia. Ha cominciato a fare piccole domande alle insegnanti in classe, le figure nei suoi disegni hanno lasciato intravvedere un abbozzo di mani e tanti tanti bastoni, inoltre come lei, che in più dimagriva, hanno preso a muoversi, a dire parolacce e a sorridere.
Il gioco del risveglio - La bimba ha preso ad arredare la stanza dei giochi come una casa e una particolare attenzione riponeva nella cura della “cucina” e della “camera da letto” opportunamente inventate in un angolo della stanza. Quasi all’improvviso un gioco si è impadronito di tutto il tempo a nostra disposizione : era il gioco dell’addormentarsi e dello svegliarsi che riassumeva e dava senso a tutti i nostri giochi, o dava loro un senso nuovo e quindi dentro a questa nuova cornice andavano riletti.
A modo suo mi ha suggerito di tornare a cercare la mia prima voce, “quella voce” doveva cullarla nella sua “sera”, mentre lei fra le lenzuola del grosso scatolone si abbandonava al sonno. Pian piano la cadenza della descrizione e dell’elenco doveva assumere il carattere di filastrocca… una era questa: “In the town where I was born… Lived a man who sailed to sea…And he told us of his life…In the land of submarines…So we sailed up to the sun…Till we found the sea of green…And we lived beneath the waves…In our yellow submarine…We all live in a yellow submarine…Yellow submarine, yellow”… Poi la filastrocca s’è trasformata in ninna nanna e doveva durare a lungo, molto a lungo. La sua notte così passava mentre io preparavo “un’abbondante colazione”… Nel silenzio si dovevano sentire piccoli e rispettosi rumori del mattino, suoni prodotti dai miei gesti con gli oggetti della prima colazione. Anche questo doveva durare tanto tempo, poi dovevo svegliarla affettuosamente, parlarle dolcemente con “quella voce” e raccontarle del mondo che si era appena svegliato.
Giorni, settimane, mesi passavano e lei portava suoni nuovi e oggetti e parole chiave… poi musiche, pensieri e ricordi da aggiungere al nostro gioco. Il gioco si faceva sempre più ricco, denso, elaborato e “parlato”.
Fino a che una mattina è arrivata a scuola piangendo come non aveva fatto mai. Come una valanga s’è gettata tra le mie braccia. Un pianto disperato e inconsolabile, un dolore così grande che la soffocava e le impediva di parlare. “Mi sono svegliata, mi dispiace” ha quasi urlato. Da quel momento il nostro rapporto ha iniziato un nuovo corso che resterà tra noi…
Ora ride, piange, parla, domanda, ascolta, corre, gioca con tutti, impara, è bella, bella come non era stata mai, è viva e negli occhi ogni tanto le guizza un’azzurra ironia. Ancora mi prende un po’ in giro: “Mi hai insegnato tu a cantare … e a dire le parolacce”… e ride.
Per le parolacce non so, forse avrei qualcosa da ridire 🙂 , ma per quanto riguarda il resto sono io ad aver imparato da lei.
*** Tiziana CAMPODONI, insegnante, saggista, blogger,
La bambina che veniva dal grande sonno, 'bluemoonandart', 1^ parte, 27 settembre 2018,
qui e 2^ parte, 29 settembre 2018,
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