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mercoledì 28 settembre 2022
#FAVOLE & RACCONTI / Cadere non è perdere (Massimo Ferrario)
martedì 27 settembre 2022
#FAVOLE & RACCONTI / La rosa e il rospo (Massimo Ferrario)
Era l’attrazione del giardino: una rosa rossa come quella non si era mia vista. Di una bellezza strepitosa. E tutti, passandovi accanto, non potevano che fermarsi ad ammirarla.
Lei, ad ogni complimento, gioiva e sembrava diventare ancora più bella.
Ma c’era una cosa che non capiva. Le persone la osservavano sempre da lontano: pareva ci fosse qualcosa che impediva loro di avvicinarsi. E lei, la rosa, di questo soffriva: certo, se l’avessero toccata, i suoi petali sarebbero presto sfioriti e per questo era bene che gli ammiratori si limitassero a guardare. Ma, insomma, avrebbe voluto che i loro sguardi fossero meno distanti, anche per consentire a lei di ascoltare meglio i loro commenti di meraviglia che la inorgoglivano.
La ragione fu scoperta quando un bambino che stava per avvicinarsi troppo venne fermato dalla mamma. “Attento, Leo: c’è un rospo nel roseto. Stai lontano”.
La rosa chinò il capo e vide l’animale. Si infuriò:
- Sei disgustoso, brutto rospo. Come ti permetti di deturpare l’immagine della mia bellezza standomi così vicino? Vattene subito: impedisci alla gente di apprezzare la mia superba fioritura e di aspirare il mio profumo unico al mondo.
Il rospo era buono e pacifico: non aveva nessuna intenzione di creare disturbo alla rosa e quatto quatto se ne andò presso un gruppo di piante a qualche metro di distanza.
Il giorno seguente la rosa cominciò a sfiorire. La gente passava e non si fermava: neppure la vedeva.
Una lucertola che ogni tanto perlustrava il roseto in cerca di cibo vide che la rosa era tutta ripiegata su stessa: alcuni petali erano caduti a terra e gli altri non erano più rossi e lucenti come prima. Si guardò in giro e notò che l’amico rospo, che incontrava sempre, se n’era andato. Chiese cosa fosse accaduto.
- Le formiche, cara lucertola. Mi stanno mangiando le formiche.
La lucertola capì.
- Vedo che non c’è più il rospo.
E aggiunse quello che anche la rosa avrebbe dovuto sapere.
- Era lui che mangiava le formiche e proteggeva la tua bellezza.
*** Massimo Ferrario, La rosa e il rospo, per 'Mixtura', libera riscrittura di un testo di autore anonimo, diffuso in rete e presente in vari siti.
domenica 25 settembre 2022
#FAVOLE & RACCONTI / Il setaccio e la lettura (Massimo Ferrario)
sabato 24 settembre 2022
#VIGNETTE / Gli va già benone così (Mauro Biani)
martedì 20 settembre 2022
#SPILLI / Estinzione (Massimo Ferrario)
lunedì 19 settembre 2022
#SGUARDI POIETICI / Niente che sia amore ti chiede di privarti di te (Manuela Toto)
del tuo sorriso,
del tuo tempo,
della tua dignità,
delle tue passioni.
L’amore non ha la forma della rinuncia.
Non ha la forma della scarsità né della privazione.
perdi tutto.
sabato 17 settembre 2022
#SGUARDI POIETICI / Mi basta un poco di dolcezza (Franco Arminio)
giovedì 15 settembre 2022
#MOSQUITO / Esercitare potere (George Orwell)
mercoledì 14 settembre 2022
#SPILLI / Pensieri sul voto prima del voto (Massimo Ferrario)
Intanto.
Ci sono due cose di cui sono sempre più convinto. La prima è che a furia di scegliere il meno peggio si produce il peggio. I fatti, se li vogliamo vedere almeno a partire da una certa ottica (la mia e quella di chi politicamente mi 'assomiglia'), dimostrano, per me in modo lampante, questa asserzione. Siamo al peggio: un peggio di cui dovremmo ritenerci responsabili/colpevoli tutti noi. Perché io persevero, forse anche qui fuori mood come mi capita su quasi tutto, nel pensare che ogni Paese, nonostante che fattori plurimi e condizioni varie e di vario peso sempre concorrano a produrre i risultati che si producono, ha la politica (e i politici) che si merita.
Certo, i compromessi sono cosa 'buona e giusta'. E necessaria: vivere è fare compromessi. In ogni campo. Anche in cabina elettorale. Perché l'ideale, per definizione, non c'è: esiste la realtà, cui in qualche modo bisogna adattarsi. Ma è altrettanto vero che c'è compromesso e compromesso e quando i compromessi sono sempre al ribasso (sempre 'più' al ribasso), si finisce ‘in basso’ al punto tale che ci si avvicina al fondo. A me pare che il presente lo insegni. Se l'ideale è oggettivamente e tecnicamente impossibile da raggiungere, perché esiste solo nel mondo astratto, lo si può però (lo si dovrebbe) 'approssimare': ma se lo si perde, per giunta senza neppure più sapere cos'è un ideale, si trasforma la realtà nell'obiettivo da perseguire, senza neppure accorgersi quando la realtà puzza e si renderebbe indispensabile tentare almeno di costruirne un'altra.
La frase che ho sopra richiamato ('a furia del meno peggio, si arriva al peggio') è semplicistica. Perché non tutti i peggio sono uguali: c'è meno peggio e meno peggio. E non votare, al di là del fatto che per me, a 76 anni in arrivo a giorni, romperebbe una 'coazione a ripetere' introiettata a 18 anni e finora mai trasgredita, è ancora peggio che votare violentando la mano perché metta comunque una croce. E' infatti anche grazie all'astensionismo (sottolineo: non 'solo', ma 'anche'), per quanto comprensibile e addirittura giustificabile in questi ultimi anni siano il ritiro e il rifiuto degli elettori, che nel peggio del peggio siamo ormai dentro fino al collo: in attesa di un peggio, domani, ancora peggiore. Un fenomeno, questo del non-voto, che grida tutta la patologia di un sistema che continuiamo a chiamare democratico anche se il 'demos', ogni anno che passa, 'se ne va via' in quantità maggiore: disgustato o, ancor peggio, indifferente. Gli dedichiamo due colonne in cronaca ad ogni elezione, rammaricandoci del fenomeno (in passato, qualche 'opinionista' malato di amerikanismo si era addirittura rallegrato: sarebbe un indice di civiltà democratica, a guardare gli Usa. E infatti...) e poi tutto dimenticato: concentriamo l'analisi, e i litigi, di vittorie e sconfitte sulle percentuali dei soli votanti. Fino a che arriveremo a discutere di chi vince e chi perde con percentuali di votanti che saranno meno della metà degli aventi diritto. Una fine terrificante per una democrazia. Ma ci siamo vicini.
Dunque.
Sì, voterò. Nonostante tutto. Con uno sforzo mai così faticoso e dopo un sospiro che dice tutto lo sconforto di cui sono pieni i polmoni (per non parlare di altri organi del corpo, simbolo di incazzatura). Sono convinto che non votare 'significa' (indicativo presente, nessun dubbio da congiuntivo) credere di poter godere di una non-complicità che non può esistere: perché, volenti o nolenti, votanti o non votanti, siamo comunque responsabili di quanto avviene. Rimanere a casa ci illude: ci fa credere di 'stare fuori'. Ma si è dentro anche tirandosi fuori. E nessuna innocenza è possibile.
Votare, ok: ma per chi e cosa?
Naturalmente le considerazioni che seguono valgono per me e per tutti quelli (e non sono pochi come sembra) che più o meno la pensano come me. Cioè per chi ancora, testardamente, insiste nel definirsi di sinistra, in un tempo in cui la sinistra - organizzata, politicamente impegnata, con obiettivi chiari e condivisi su temi sociali ed economici e non solo focalizzati sui diritti civili - non c'è più. Quello che si agita a sinistra e vuole darsi una configurazione politica, dichiarandosi di sinistra, è litigiosamente e perennemente frammentato: ad ogni elezione si presenta con l'ultima sigla, in concorrenza con altre 'sigline' e 'siglette', in genere frutto dell'ultima personalizzazione dell'ultimo personaggino che dice di voler cambiare il mondo ed è convinto di essere il più puro dei puri della sinistra più pura, e poi dura lo spazio dell'elezione. Già il giorno dopo, tutto riscompare. Non solo 'non si cambia il mondo', ma neppure si arriva a fare la cosa preziosa (sempre più preziosa) che consiste in una seria, convinta, concreta 'testimonianza attiva.' Facendo opposizione. E magari sviluppando in parallelo, sul piano teorico (la teoria è il migliore strumento per la pratica), idee adatte al nuovo secolo, che tuttavia non tradiscano l'ispirazione di fondo che rende sinistra la sinistra. Costruendo così per il domani e non pensando solo all'oggi. Senza farsi prendere dal demone del 'governismo', che magari, in nome di uno strumentale e vantaggioso senso di 'responsabilità', ti porta al governo anche quando hai perso. E' così che è stata uccisa qualunque speranza di alternativa, anche minima, al presente, offrendo solo potere in forma di poltrone e affari: la politichetta più sconcia al posto di qualunque anche lontana parvenza di Politica.
La mia scelta, già abbozzata un mese fa, subito dopo la (per me troppo tardiva) presentazione a Draghi della lettera in 9 punti di Conte (sprezzantemente rimandata al mittente dal Migliore dei Migliori) vuole essere una firma su quella 'lettera-agenda sociale' che Conte appunto si è intestato.
Voterò quindi lui, Conte. Più che i 5Stelle.
Certo, a mio avviso, questa è una possibilità non scontata e tutta da verificare. Ma è un potenziale attribuibile, oggi, ai 5Stelle guidati da Conte più di quanto non sia per talune 'foglie di fico' (Fratoianni, Civati e altri) che hanno deciso di allearsi/integrarsi con e dentro quell’ex-centrosinistra ormai diventato Pd, convintamente e fermamente stabilitosi al centro, o per micro-cespugli di volonterosi alla De Magistris e compagni, che, in aureo isolamento, neppure raggiungeranno, more solito, il quorum per entrare in parlamento.
domenica 11 settembre 2022
venerdì 9 settembre 2022
#FAVOLE & RACCONTI / Mario il Barbiere e la settimana speciale per i clienti (Massimo Ferrario)
giovedì 8 settembre 2022
#VIGNETTE / Si torna a scuola (Fogliazza)
lunedì 5 settembre 2022
domenica 4 settembre 2022
#SENZA_TAGLI / Scene di ordinario, quotidiano razzismo (Fabio Chiusi)
Ieri, nel pieno della serenità di una domenica di fine agosto, passeggio con il cane ai margini del centro di Udine. La zona è alberata, c’è un bel vento: si sta d’incanto. Un signore di mezza età siede su una panchina, di fronte alla roggia. Sembra sereno anche lui, come tutto il resto. Quando sono a pochi metri, però, vedo le sue labbra muoversi. Tolgo allora gli auricolari, il podcast che stavo ascoltando si ferma, e sento cosa ha da dire:
“Ma come mai tutti questi neri in giro? Ti sembra normale?”
Il mio cervello si rifiuta di computare, quindi chiedo di ripetere la domanda — e il placido sconosciuto ripete: “Guarda”, aggiunge poi con un evidente ribrezzo addosso, indicando due ragazzi di colore che camminano tranquilli all’altro lato della strada.
Per lui, sono un problema.
Per me, invece, il problema è lui. Gli chiedo: “Ma che cazzo di domanda è?”. Gli dico, prima che possa continuare, che se vuole un paese di soli bianchi può andarsene affanculo nella Germania nazista.
Lo maledico ancora un po’, ad alta voce, mentre mi allontano. I due ragazzi sono passati oltre, per fortuna, non hanno sentito niente.
Ora: sono passate 24 ore, e la cosa ancora mi infastidisce. Terribilmente. Perché no, non è un caso isolato. È invece solo l’ultimo e più eclatante episodio di quello che secondo la mia (limitata) esperienza è un continuo sottofondo, qui nel Nord-est: “Non siamo neanche più padroni a casa nostra”, fanno anziane, posate signore che pisciano il barboncino. “Hanno tutti i diritti, e noi nessuno”, aggiungono eleganti signori col giornale sotto braccio.
Conoscenti e sconosciuti, giovani e anziani: sembrano sempre avere qualche colpa da distribuire ai “neri”, ai “pachistani”. E no, non c'è videocamera di sorveglianza o pattuglia aggiuntiva che tenga: bisogna vivere col terrore, il terrore dell'uomo nero.
Che siano sempre italianissimi giovani e meno giovani ad avermi quasi travolto il cane mentre cercavo di attraversare sulle strisce pedonali almeno una ventina di volte nell’ultimo anno non rileva. Che la merda lasciata in mezzo alla strada sia dei loro cani a sua volta non rileva. Che la mancanza di rispetto sistematica patita sul mondo del lavoro sia causata da italianissimi datori di lavoro anche, non rileva.
Né rilevano tutti gli altri problemi della società italiana causati da italiani: il consenso, la normalità, è che almeno in prima battuta sia colpa degli “immigrati”.
Forse ho un campione sfortunato. Forse è la mia tendenza a vedere il brutto più del bello. Forse mille altre cose.
Ma il razzismo si percepisce a pelle. E la mia pelle, da quando sono rientrato in Italia, se lo sente addosso.
Che clima abbiamo creato, in che cazzo di paese stiamo vivendo?
E soprattutto: in che cazzo di paese vivremo, dopo il 25 settembre?
*** Fabio CHIUSI, giornalista, saggista, poeta, Scene di ordinario, quotidiano razzismo, 'Facebook', 29 agosto 2022, qui