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martedì 16 giugno 2020

#RITAGLI / Montanelli e la statua imbrattata (Stefano Feltri)

Indro Montanelli è stato un grande giornalista, milioni di italiani si sono formati sulle pagine della sua Storia d’Italia e sulle sue cronache, spesso più ricche di dettagli della realtà che raccontava. 

Chi ha imbrattato la statua nei giardini a lui intitolati a Milano non pensa che Montanelli scrivesse male o che fosse noioso, ma contesta la trasformazione dell’uomo, inevitabilmente complesso e fallace, in un simbolo nel quale tutti sono chiamati a riconoscersi.

I fatti. Durante la guerra d’Etiopia, tra il 1935 e il 1936, una orribile guerra coloniale durante la quale tutti facevano cose orribili, Montanelli si trova in Africa e “sposa” una ragazzina di 12 o 14 anni. 

La Fondazione Montanelli riassume così la vicenda: " Montanelli sposò sì la giovane Destà com’era usanza della popolazione locale, ma, per quanto oggi possa apparirci riprovevole, quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro.
Si tratta di un episodio della sua vita, non imposto né attuato con violenza, che mai nascose. "

Montanelli a 26 anni era un giovane uomo, non un ragazzino incapace di valutare le proprie azioni. Ma i tempi e il contesto erano quelli che erano, dicono i suoi difensori.

Qualcuno smette forse di leggere Socrate e Platone perché predicavano le virtù dell’amore per i fanciulli? 

Poi però i tempi sono cambiati parecchio, Montanelli meno. Ancora nel 1972 Montanelli parla con disinvoltura dell’episodio, “in Africa usa così”, dice. In una trasmissione tv non ha argomenti per replicare alla femminista Elvira Banotti che gli contesta come, dal punto di vista psicologico e fisico, i danni sulla ragazzina non siano stati diversi da quelli che avrebbe subito una dodicenne europea. 

Ma accettiamo pure l’assoluto relativismo culturale di Montanelli - che oggi impedirebbe ogni critica alle pratiche più umilianti cui le donne sono sottoposte in certi regimi islamici - e restiamo al contesto del quale condividiamo le coordinate etiche e morali, cioè l’Italia e l’Occidente. 

Ancora nel 2000, nella risposta a una lettrice oggi pubblicata sempre sul sito della Fondazione Montanelli (giudicata accettabile anche dai custodi della memoria del giornalista), Montanelli racconta le sue difficoltà a entrare in intimità con la ragazzina etiope per via del suo “odore” e perché “era infibulata fin dalla nascita”. Sorvoliamo sulla palese assurdità del concetto, ma Montanelli non si fa scrupolo alcuno neanche a posteriori, anzi racconta - senza traccia di empatia o comprensione - quanta fatica avesse fatto per “demolire” quella che per lui era “una barriera insormontabile”. Aggiunge anche che ci volle “il brutale intervento della madre” per appagare la sua italica virilità. Ripeto: siamo nel 2000, non nel 1935 durante la guerra coloniale di un regime dittatoriale. 

Tutto questo rende Montanelli un cattivo giornalista? Secondo la maggioranza, inclusi anche alcuni suoi critici, no.  

La questione che la vernice sulla statua pone è diversa: possiamo celebrare un grande giornalista anche se per tutta la vita è rimasto indifferente a una simile violenza, pure quando aveva perso ormai ogni alibi di contesto? 

Si può perdonare l’imperfezione dell’uomo, ma questo non obbliga a trasformarlo in simbolo, è il messaggio del vandalismo di Rete Studenti e LuMe.

*** Stefano FELTRI, direttore di 'Domani', estratto da Le statue e la memoria di Domani, 15 giugno 2020, qui


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