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sabato 19 marzo 2016

#VIDEO / Street Art, un'invenzione del mercato? (Alicè intervistata da Annalisa Camilli)

ALICE': La street art è una parola inventata per vendere qualcosa
videointervista di Annalisa CAMILLI 
internazionale.it, 16 marzo 2016
video 2min25

AliCè è una street artist romana famosa in tutto il mondo per le sue opere, da New York a Singapore, da Montevideo a Parigi. I suoi murales rappresentano mondi immaginari, persone comuni, spesso donne e ragazze, che vengono proiettate in paesaggi surreali.

Dipingere su un muro è molto diverso da dipingere nel chiuso del proprio studio su una tela, afferma. “Significa che l’artista deve pensare alle persone che davanti o dietro a quel muro ci abitano, e ci rimarranno anche quando l’artista se ne sarà andato”, dice AliCé in una pausa di lavorazione di un murale all’interno di un centro di accoglienza per minori migranti a Roma.

I suoi progetti sono spesso legati alla trasformazione della marginalità in un valore positivo: ha lavorato con i migranti a Melilla, l’enclave spagnola in Marocco e con le periferie, da Ostia a Jersey City.

Pasquini è critica con quella che definisce “la gallerizzazione” della street art. Un’arte nata come avanguardia, come sistema spontaneo che si sottrae ai meccanismi del mercato, si sta trasformando. Negli ultimi tempi curatori e collezionisti hanno capito che c’è un grosso margine di guadagno con la street art, dice Pasquini, e per questo hanno cominciato a investire su questo settore.

Tra gli street artist italiani, Alice Pasquini, è tra i pochi che ha scelto di rinunciare all’anonimato, assumendosi i rischi che comporta usare il proprio nome.
Il 15 febbraio di quest’anno Pasquini, 35 anni, è stata condannata a Bologna per “imbrattamento” per i suoi lavori realizzati tra via Centotrecento, via Mascarella, via Zamboni, via del Pratello e in zona Bolognina. Tutto è partito da un’intervista rilasciata dall’artista, in cui Pasquini parlava dei suoi murales a Bologna e se ne attribuiva la paternità. L’intervista è stata usata da un procuratore per incriminarla e il processo ha portato a una condanna emessa dalla giudice Gabriella Castore in primo grado. Secondo la giudice, che ha emesso la sentenza dopo che anche l’accusa aveva chiesto l’assoluzione, l’esistenza del reato “non può avere come parametro né lo stato di decoro del bene imbrattato né l’eventuale natura artistica dell’opera d’arte che si sta realizzando”.
(dalla presentazione)

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